“Ognuno di noi ha i suoi inferni, si sa. Ma io ero in testa di tre lunghezze sugli inseguitori.”
GRAN TORINO
Essere Nemanja Radonjic
Charles Bukowski.
Torino-Sassuolo, minuto 83. Esce Tonny Sanabria, entra Nemanja Radonjic. Boato della folla, cori per il serbo che entra zampettando.
Qualche secondo dopo, Rado riceve il pallone.
Doppio passo con colpo di tacco per saltare l’avversario.
Un gesto superfluo, futile, visto che il serbo non ne trae vantaggio alcuno, eppure il pubblico gradisce.
Pubblico che aveva salutato entusiasticamente il suo ingresso in campo prima e subito dopo ne aveva sottolineato il gesto tecnico con un oh di stupore.
Qualcuno in curva Maratona, dietro di me, aveva commentato: “Non far giocare Radonjic è da matti. Uno così, da noi, dovrebbe essere sempre titolare.”
Su questa ultima affermazione ci tornerò più avanti.
Mai sindacherei le scelte di Mister Juric per una serie di motivi.
In primis perché sono dettate da quello che vede in allenamento e nella quotidianità dello spogliatoio. Secondo, non ho idea di come possa immaginare Rado nel nuovo modulo 3-5-2. Terzo, non conosco il reale stato di forma psicofisica del giocatore. Quarto, l’allenatore è lui e io, forse, al bar, e dopo un paio di Torino-Milano potrei dire la mia, ma solo per farla sapere agli altri avventori, cosa che comunque non credo interesserebbe granché.
Ma, al netto delle scelte di Juric, non posso fare a meno di notare che Radonjic sia uno dei più giocatori più amati della rosa granata.
LEGGI ANCHE: Lecce, Caporetto e Van Gogh
Sabato scorso a Monza, la gente lo ha acclamato con un afflato che si dedica a pochi, come se Rado fosse l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi, la speranza, l’uomo in più, quello che fa la differenza.
Provo ad ipotizzare che sia per le indubbie qualità tecniche mostrate a corrente alternata, in questi ultimi mesi.
Perché la sua imprevedibilità e la sua fantasia stuzzicano l’immaginario del tifoso, perché ha colpi superiori alla media, perché è quel misto di Gento, Best e Meroni che…ah, no, quello era un altro.
Oppure perché la gente si affeziona ai più fragili, ai matti, agli strani, a quelli dal carattere particolare.
Un sentimento misto, un connubio di empatia e schadenfreude, ammesso che possa esistere uno stato d’animo che contempli la comprensione dell’individuo e al tempo stesso il compiacersi delle sue disgrazie.
Intendiamoci. Compiacersi nel vedere un calciatore della squadra per cui si tifa sprecare il proprio talento non può essere piacevole ma è la constatazione che la zona di comfort in cui Rado ha trascorso buona parte della sua carriera sta in costante e perenne equilibrio tra le prove di Salerno e il derby dello scorso anno.
Perché Rado fa parte della schiera dei geni incompresi e inespressi che si amano o si odiano.
L’elogio della follia calcistica, il dileggio del talento, la genialità dei colpi e l’estemporaneità degli stessi.
Nella vacuità, nell’assenza, la sua bellezza.
Burattino senza fili
Uomo fuori dagli schemi, vagabondo talentuoso, dissoluto, perdente di successo, artista folle, baro.
Il portiere che sostituì Bacigalupo nel post Superga, prese parte, insieme a Carapellese, alla spedizione azzurra nel Mondiale brasiliano del 1950 e i due furono i primi granata a disputare una fase finale del campionato del mondo.
Giuseppe Moro, detto Bepi, non sarebbe mai stato convocato in nazionale, proprio perché davanti a lui c’era Bacigalpo e nemmeno lui si capacitava di quella scelta poiché riteneva di essere non all’altezza della situazione.
La sua esperienza in granata durò appena un anno tra prodezze e follie, pesanti e reiterate accuse di combine.
Contro il Venezia parò un rigore ipnotizzando l’attaccante lagunare Degano, con riti propiziatori, gesti e parole incomprensibili che distrassero l’avversario, inducendolo all’errore.
Non erano rare le occasioni in cui, in campo, assumeva atteggiamenti stravaganti, che sconfinavano nella follia.
Quando decideva di umiliare gli attaccanti si trasformava nella marionetta, soprannome che i giornalisti gli avevano affibiato per le sue capacità attoriali, in un misto di indifferenza e impassibilità, e le mosse meccaniche che copiavano i movimenti di un burattino.
Bloccava tiri violenti con una sola mano, evitava i tuffi che non fossero indispensabili, rimaneva all’improvviso inspiegabilmente fermo, con aria distratta, mentre l'avversario si trovava a pochi metri di distanza, non muovendosi nemmeno dopo che il tiro era partito se aveva calcolato che il pallone avrebbe sfiorato il palo.
Famoso per la sua frenesia e l’eccentricità, Moro si impegnava in gesti irrazionali, il principale dei quali era recuperare il suo berrettino da ciclista che perdeva durante le uscite, dimenticandosi, volutamente, dell’andamento del gioco e della presenza del pallone nei pressi della sua porta.
LEGGI ANCHE: The players – I protagonisti
Certe notti
Riecheggiavano ancora nei juke-box e nelle radio le note dello swing di Fred Buscaglione, scomparso prematuramente nel 1960, quando a Torino approdò il duo dal whisky facile: Denis Law e Joe Baker.
Scozzese, una certa riottosità alle regole e alla disciplina in generale, amanti delle notti brave, Law, in campo mostrava capacità fuori dal comune.
Insieme a Baker costituiva una coppia affiatata e mortifera per le difese avversarie.
Ma l’idillio finì nel febbraio del 1962, con il terribile incidente di Corso Cairoli al termine di una notte che ricordava fin troppo da vicino uno dei migliori successi di Buscaglione.
Macchina distrutta, Baker malridotto e Law praticamente illeso.
Quando il secondo tornerà disponibile, per evitare il passaggio ai cugini, saranno i tifosi granata a risolvere la questione, accompagnando lo scozzese all’aeroporto dove lo attendeva un volo per Manchester.
A casa, qualche anno dopo vincerà il Pallone d’oro, formando, allo United, uno spettacolare terzetto con Bobby Charlton e George Best.
The dark side of the moon
In campo avrebbe potuto fare di tutto e di più.
l problema è che la luce si accendeva ogni tanto, per periodi brevi oppure concentrava il suo bagliore accecante solo in alcune esibizioni. A quel punto erano dolori.
Calciatore dall’andatura caracollante, dal passaggio vincente, con il gusto della giocata e dello sberleffo, Andrea Gasbarroni, al Toro, ha spesso mostrato il suo dark side of the moon.
Incontenibile solo a sprazzi, geniale e discontinuo, aveva la capacità di accendersi ma soprattutto di spegnersi con disarmante facilità.
Confinato in fascia, più o meno volutamente (e spesso dalla parte opposta alla panchina del mister), Gasbarroni ha scelto di essere solo Gasbarroni. Io vorrei, non vorrei diceva Battisti e forse questo è il miglior riassunto della carriera di Gasbadona.
Alzi la mano chi non ricorda quel meraviglioso pallonetto in quel di Reggio Emilia durante un Sassuolo-Toro 2-3, vissuto con il cardiopalma?
Gasba passò in mezzo a tre uomini come un ballerino, destreggiandosi con il pallone attaccato al piede. Destro-sinistro-destro. Poi, davanti a lui si spalancò una autostrada in cui si infilò con prontezza, puntando l’area di rigore. Arrivato al limite della stessa, dipinse un michelangiolesco pallonetto di interno destro che terminò la sua corsa all’incrocio dei pali, alle spalle dell’incolpevole Pomini.
Ho sempre pensato che il portiere emiliano, quella sera, sia andato a dormire sereno, senza rimpianti, forse anche gratificato da quella prodezza che lo aveva visto, suo malgrado, protagonista indiretto di un gesto esteticamente meraviglioso.
LEGGI ANCHE: Il mondo alla rovescia
L’elogio della follia
E arriviamo, in ultimo, a Nemanja Radonjic.
Lo so, direte, ne sono passati tanti di mattarelli anche più forti di lui e su quelli avrei potuto scrivere fiumi di parole.
Gigi Meroni, per esempio, o Emiliano Mondonico, il suo erede, che tagliava gli allenamenti per andare a sentire i Beatles o che si faceva espellere con la maglia della sua adorata Cremonese, per saltare il turno successivo e andare al concerto dei Rolling Stones.
Nemanja è diverso.
Perché lui è il caos. O meglio, dentro di lui c’è il caos.
Qualcosa di ingestibile, un vulcano sul punto di eruttare, uno scrittore in grado di scrivere da un momento all’altro una meravigliosa prosa d’amore o di stracciarne il manoscritto.
Rado è così, prendere o lasciare.
È l’uomo capace di inventare dal nulla un gol, Genoa, ma è lo stesso che si intestardisce in fascia in un anonimo Toro-Cremonese, riuscendo sistematicamente a non saltare un difensore avversario nemmeno per sbaglio.
C’è un momento in cui Rado è onnipotente e un momento dopo scompare, nascondendosi negli anfratti di un carattere difficile e incomprensibile.
Può far vincere la sua squadra da solo, dribblando all’infinito, saltando avversari come birilli, accarezzando e calciando il pallone con maestria e leggiadria.
In quei momenti, tutto può accadere.
Peccato che quei momenti sono, appunto, momenti.
Attimi.
Se Radonjic li mettesse tutti in fila, avrebbe una autonomia maggiore e potrebbe concentrare la bellezza per periodi di tempo più lunghi.
Ritorniamo alla frase del tifoso in curva Maratona.
Rado sempre titolare? O meglio da subentrante a partita in corso?
Abbiamo visto entrambi i casi e così su due piedi, se dovessi dire quale sia la scelta migliore, direi una sonora bugia.
LEGGI ANCHE: Io, Marie-Jo, il derby e Marsiglia
In discussione non è certo la classe, bensì la capacità di scomparire (spesso) e riapparire (a sprazzi), perché talento e l’indolenza vanno di pari passo.
Rado è un pomeriggio che piove, in cui non vorresti fare altro che dormire sul tuo divano, al calduccio, sotto un bel plaid, ma allo stesso tempo è James Dean che sfreccia con la sua Mercury Club Coupé sotto i tralicci dell’alta tensione.
Rado abbandona sporadicamente il mondo parallelo in cui vive, un mondo scollegato con la realtà, cercando di riconnettersi con quello che gli succede attorno, spesso senza successo.
Irritante, capriccioso, apatico, geniale, intuitivo, talentuoso.
Rado si aggira spesso per il campo senza meta, come se i compiti assegnatigli dal suo mister fossero carta straccia.
Juric lo conosce, sa quanto vale e quanto potrebbe valere ma la cosa peggiore è che a Rado non interessa.
Lo sfogo di Juric nel post derby dell’anno scorso fu emblematico: "Radonjic manca di rispetto a questo gioco. In sei mesi non sono riuscito a farlo diventare un giocatore di calcio. Ci sono cose che faccio fatica di capire di lui. Entri e fai cose diverse da quelle che ti vengono dette, questo vuol dire che non ci sei dentro con la testa“.
Ma è possibile recuperare un giocatore come Radonjic?
È possibile riuscire a migliorarne il rendimento oppure è una causa persa?
Si può scendere a compromessi, accontentatosi di assistere a fugaci ed estemporanee esibizioni in cui è incontenibile, ben sapendo che potrebbe non esserlo per niente.
Tenerlo in campo per novanta minuti? A Nemanja ne basterebbe uno. Uno soltanto per risolvere una partita o incasinarla definitivamente.
Prendere, o lasciare.
LEGGI ANCHE: Ovosodo
Eppure, dovevate sentire l’urlo della folla al suo ingresso in campo contro il Sassuolo oppure a Monza, quando è passato sotto il settore ospiti per regalare la sua maglietta ad un ragazzino che gli aveva dedicato un cartellone.
La gente si affeziona al cigno nero, al figliol prodigo. A quelli sbagliati.
Forse perché sono uguali, forse perché sono diversi.
Rado e quelli come lui, continuano a deliziare le platee come i guitti delle compagnie teatrali, sapendo che un giorno riceveranno rose e il giorno dopo pomodori, perché sanno quanto è sublime tutto ciò e scelgono di vivere nella loro eterna imperfezione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA