Proprio mentre mi stavo accingendo a scrivere il mio pezzo su Cagliari-Toro, è arrivata la notizia della morte di Gigi Riva.
GRAN TORINO
Rombo di tuono
Per motivi anagrafici, Riva, per noi “ragazzi” della metà degli Anni Settanta è un racconto tramandato da padri e nonni, fotogrammi sbiaditi in bianco e nero, immagini che puoi sentire per la purezza e la bellezza dei gesti tecnico-atletici.
Gigi Riva incarnava alla perfezione il ruolo di centravanti impetuoso, potente e spietato sotto porta: bomber implacabile, uomo mite e silenzioso, eroe di una terra che lo ha accolto e cresciuto prima come uomo e poi come calciatore.
Così, nonostante sia sempre molto restio a parlare di fatti e persone a cui non ho assistito personalmente, questa settimana Gran Torino omaggia la figura mitologica di Gigi Riva.
Mitologica perché Riva è stato eroe di una intera generazione, ma soprattutto di un’intera regione e di un intero popolo.
Riva è stato capo di quel popolo, Robin Hood capace di strappare lo scudetto alle grandi del continente per donarlo alla Sardegna, uomo di altri tempi che ebbe la forza di rifiutare la corte delle stesse per coerenza, rispetto e riconoscenza verso quella terra che lo aveva adottato.
Sarebbe stata una vigliaccata andare via da Cagliari, sarebbe stata un’ingiustizia nei confronti di un’intera isola, bollata al di qua del Tirreno come un posto di banditi e pecorai.
Riva è stato supereroe, condottiero e bandiera di quella squadra vincente formata da otto undicesimi provenienti dal Continente.
Dici Riva, pensi Cagliari e per esteso Sardegna.
Pensi ad una regione in cui si veniva spediti in esilio, una regione di minatori, banditi e pecorai (cit.) che Riva nobilitò con la sua figura e le sue gesta.
E quindi è impensabile immaginare che venerdì sera, quella tra Cagliari e Toro, sarà una partita come le altre.
Gigi Riva è entrato di diritto nell’immaginario collettivo per alcuni gol straordinari e iconici: la rovesciata di Vicenza, il colpo di testa in tuffo al San Paolo di Napoli, contro la DDR, nel match che ci qualificò a Messico 70 e poi, proprio laggiù, all’Atzeca, mise la sua firma grazie al temporaneo 3-2 nella Partita del secolo con un chirurgico diagonale mancino.
Gianni Brera, giornalista inventore di un gramelot calcistico intriso di letteratura alta, lo consacrò al mondo come Rombo di Tuono, perché l’impatto del sinistro con il pallone produceva un rumore che ricordava le saette in certe giornate di pioggia.
Gigi Riva da Leggiuno, sponda varesina del Lago Maggiore, luogo del cuore e dell’anima, fu palestra di vita, con le uscite in barca, la pesca e le partite di calcio sulle spiagge di Laveno.
Cresciuto troppo in fretta a furia di fatiche e dolori, affrontando le difficoltà di una vita complicata a causa della morte di suo padre quando aveva nove anni e poi quelle di sua mamma (ne aveva sedici) e di sua sorella.
Riservato, sensibile, si fa rapire sin da giovanissimo dal calcio che diventa alternativa ad una vita da operaio in una fabbrica di ascensori.
Quando arriva la chiamata del Legnano in Serie C, Riva è un ragazzo magrissimo, mingherlino, il più piccolo della squadra, non per niente lo chiamano il forchettina.
Di questi esordi, Riva conserverà per sempre un ricordo indelebile, per via di quella purezza che solo il calcio degli anni Sessanta sapeva restituire.
Il mondo genuino, di un uomo genuino.
Una corrispondenza d’amorosi sensi che lo porterà a Cagliari, dove si consacrerà come calciatore, senza dimenticare le sue origini, i suoi valori.
Riva si trasforma fisicamente, è potente, atletico e diventa incontenibile.
8, 9, 11, 18, 13, 20, 21: sono i gol segnati dal suo arrivo in Sardegna e l’ultimo è il numero delle reti nell’anno dello Scudetto.
Quando lo incroci, c’è poco da fare.
In Nazionale esordisce nel 1965. Da lì, al 1974, 35 reti in 42 partite: una continuità impressionante, un record ancora imbattuto che restituisce la grandezza del calciatore.
Riva ha segnato un’epoca e quando un calciatore lo fa, diventa patrimonio non solo dei suoi tifosi, ma di tutto un movimento, uno sport, una nazione, come accaduto per traslato, a Coppi, Benvenuti, Berruti, Panatta o Tomba.
Quando il Toro ha incrociato Riva ci ha lasciato spesso le penne.
Per il centravanti lombardo, in 21 partite, 11 reti tra Campionato (9) e Coppa Italia (2), per un record di 8 vittorie, 5 pareggi e 8 sconfitte.
Ed è proprio Riva l’avversario di turno in un Toro-Cagliari del 1968/69 in cui fa il suo esordio nella massima serie, Paolo Pulici.
Quel match è anche l’ideale passaggio di consegne tra il bomber principe di quel periodo e il ragazzino che qualche anno dopo esploderà a suon di reti.
Simbolico perché Pulici vedeva Riva come un esempio, altrettanto simbolico perché entrambi provenivano dal Legnano, emblematico perché, per caratteristiche simili, Pulici sembrava il Riva del futuro.
Completo, o quasi, (A Gigi Riva il piede destro serve solo a salire sul tram, diceva di lui Manlio Scopigno, allenatore del Cagliari scudettato), micidiale in acrobazia e nel gioco aereo, letale con il suo saettante mancino, implacabile in area.
L’attaccante dei sogni.
Un sogno come lo Scudetto del 1970 a cui Riva mise il sigillo con 21 reti di cui 3 al Toro timbrato all’andata e al ritorno.
Cagliari-Toro 2-0, 4 gennaio 1970
—Al vecchio Amsicora, l’arbitro Mascali, fiscale e ligio al regolamento, fa iniziare la partita con quasi mezzora di ritardo per controllare i tacchetti di tutti i giocatori.
Il fatto curioso è che ne pesca un tot che contravvengono alla regola e le due squadre devono correre ai ripari.
La cosa non infastidisce Riva che sigla da par suo il gol del definitivo 2-0.
Calcio d’angolo. Da Domenghini a Nené, dal brasiliano a Riva e il mancino numero undici, spalle alla porta, inventa una acrobatica rovesciata infilando la rete con prodigiosa abilità battendo un incolpevole Pinotti.
In mezzo alla partita, un palo, una traversa e un salvataggio sulla linea, tutto marchiato Riva.
Toro-Cagliari 0-4, 26 aprile 1970
—I sardi sono campioni d’Italia da qualche settimana.
Quella di Torino è una passerella meritata e piacevole per i sardi, spinti dall’entusiasmo di oltre 15mila tifosi giunti a Torino da tutte le parti d’Italia.
Il Toro stende il tappeto rosso e anche il pubblico granata applaude i neocampioni.
Riva mette il carico a briscola segnando una doppietta.
Il primo gol è un diagonale mancino che l’attaccante insacca di prima, avventandosi sul pallone in maniera fulminea.
La palla aveva attraversato tutta l’area e quasi calamitata era finita sul sinistro implacabile di Riva che batteva Pinotti per il momentaneo 2-0.
Il tre a zero è ancora opera sua.
Svicola a mancina, si invola in fascia e viene affrontato da Maciste Bolchi.
Riva rientra sul destro, salta Bolchi e con un mezzo scavetto mancino batte ancora Pinotti.
Probabilmente non c'è nella storia del calcio un rapporto così simbiotico tra un giocatore, una squadra e una città o una regione: così su due piedi, forse Pelé al Santos o Totti alla Roma.
Riva è stato forse molto di più per quella decisione di legarsi per sempre ad una terra non sua, diventando profeta in una patria che lo ha accudito, abbracciato, amato.
Lasciatemi dire che trovo meraviglioso che sia proprio il Toro a salutare l’addio di questo grandissimo campione, un uomo legato a valori che sentiamo nostri: il senso di appartenenza, il legame viscerale, la riconoscenza, l’amore per i colori.
Non è casuale, non può esserlo.
Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.
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