Per introdurre, Toro-Genoa, propongo uno scritto che fa parte del libro "Tifosi granata per sempre. Il grande racconto della passione Toro", curato da Alessandro Salvatico, Edizioni della Sera, 2022. Lo potete trovare in tutte le migliori e anche nelle peggiori librerie e sui siti di e-commerce. Contiene granatismo. Buona lettura.
gran torino
Sette minuti soltanto
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Ci sono alcune partite del Toro che ricordo perfettamente, partite che trovano posto negli angoli della memoria, con tutte le piccole sfumature e gli stati d’animo di quel momento. In questo caso, ciò che mi fa tornare alla mente i sette minuti decisivi di Torino-Genoa del 13 aprile 2014, è un sentimento che non avevo mai provato prima di allora nei confronti della mia squadra del cuore: la rabbia.
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Ho visto sconfitte cocenti e immeritate, derby persi in maniera drammatica, eliminazioni e finali perse per una traversa o per un rigore e l’amore che provo per questa squadra fa sì che io scelga di stare sempre dalla parte del Toro, perché il Toro non va mai abbandonato, specialmente nei momenti di difficoltà. Ho odiato il Toro solo una volta in tutta la mia vita e solo per sette minuti. Era una calda domenica di aprile e come direbbe il poeta, “Non è Rio de Janeiro ma c’è un clima fantastico.”, la ricordo come fosse adesso… Il tram numero dieci sferraglia mentre cori e grida di gioia coprono il rumore stridulo del suo movimento.
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Sono uscito di corsa dallo stadio, inquieto come nemmeno dopo la peggiore delle sconfitte mentre enormi bandiere granata garriscono al vento e qualche clacson strombazza. Un ragazzo da un motorino in corsa, grida: “Forza Toro!!”. Il sole riempie la giornata di una sfavillante luce giallastra: in lontananza automobili sfrecciano esibendo vessilli granata. La gente è felice, il Toro ha vinto e io sono l’unico tifoso a non esserne soddisfatto. La mia passeggiata verso lo stadio era stata come al solito, molto rilassante. Da quando abito in San Salvario, andare a piedi al Comunale è divenuta una piacevole consuetudine. Poco prima di arrivare a destinazione mi aveva chiamato Willy: “Io sono al bar con Paolo, prendiamo qualcosa e poi andiamo in Maratona! Ci raggiungi?” Ero quasi arrivato al chiosco della Maratona, il bar era fuori mano e poi ognuno ha i propri rituali, perché cambiarli?
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Oggi c’è Toro-Genoa e, per quanto mi riguarda, dal 2009 i rapporti con i rossoblù sono cambiati: a Marassi i tifosi genoani canzonarono Mister Novellino e a Torino, alla fine del match che ci condannò alla B, in campo si scatenò una rissa indecorosa, mentre sugli spalti, il gemellaggio, di fatto naufragava. Il Genoa è come quei pranzi di famiglia con i cugini che arrivano da fuori città: non hai niente da condividere con loro, non li sopporti e devi giocarci perché i tuoi genitori insistono. Entro in Maratona e si respira l’aria delle grandi occasioni. Le facce e gli sguardi delle persone dicono tutto. La curva è piena. Ogni volta che salgo i gradini ed entro al Comunale rivedo la scena di quel bambino tenuto per mano da suo padre. Sono passati oltre quarant’anni, ma la sensazione è sempre uguale. Raggiungo gli amici: l’ambiente è carico, oggi si vince. Lo speaker annuncia la formazione: Padelli, Bovo, Glik, Moretti, Maksimovic, El Kaddouri, Vives, Basha, Vesovic, Cerci, Immobile. A disposizione: Gomis, Berni, Rodriguez, Barreca, Gazzi, Tachtsidis, Meggiorini, Barreto. Allenatore, Giampiero Ventura. Ci aspettiamo un Toro d’assalto.
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Pronti? Via! Toro in cerca della profondità, Genoa più manovriero e orizzontale. Lunga fase di studio. Noia generale. Occasioni, zero. Tiro di Cerci, Perin para in due tempi, poi due innocue conclusioni del Genoa. La fine del primo tempo è una mazzata che mette a dura prova il mio ottimismo viscerale. Mi sento tradito, proprio oggi che serve una partita da Toro, il risultato è una prova scialba e incolore. Bevo l’ennesima birra e anche se non voglio ammetterlo, temo che non vinceremo. Guardo la gente intorno a me e noto che gli sguardi non sono più gli stessi di un’ora fa.
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Comincia il secondo tempo. Mi aspetto un Toro diverso, con furore agonistico, grinta, voglia. Quello del primo tempo non era vero Toro. Il registro è sempre uguale, anzi, se possibile le cose peggiorano. Entra Gazzi, esce Basha, anche tatticamente, non cambia nulla. Il ritmo è lento che nemmeno in una balera degli anni Sessanta. La partita è triste come un fado lisbonese e il mio umore peggiora con il passare dei minuti. Guardo il tabellone e, come spesso capita quando il risultato non sorride, il cronometro sembra viaggiare a velocità doppia. Il tifo è incessante ma il mio scoramento è palese. Calcio di punizione per il Genoa dalla trequarti. Traversone di Marchese, Glik colpisce di testa e il retropassaggio sta per scavalcare Padelli, uscito per abbrancare il pallone in presa. Lo stadio trattiene il fiato, Padelli rincula velocemente verso la porta: stiamo per assistere alla classica frittata granata ma il portiere sventa la minaccia prima che la palla varchi la linea.
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Tiriamo un gigantesco sospiro di sollievo. Il mio umore è sempre più nero. Non vincere oggi sarebbe un delitto ma gli indizi portano tutti al più incolore degli zero a zero. Il tempo scorre, l’ansia cresce, mancano lucidità, idee, precisione e soprattutto tiri in porta. Sono imbestialito, vorrei urlare la mia frustrazione e la mia inquietudine e invece mi chiudo nel più rigoroso dei silenzi. Mi siedo, sbircio la partita attraverso le sagome degli spettatori che mi stanno davanti. Il peggio deve ancora venire: hanno inizio sette maledetti minuti in cui decreto ufficialmente il mio odio per il Toro. Minuto 86. Palla a Marchese che, trotterellando, supera la linea mediana del campo. Gazzi non lo attacca e l’ex Toro scodella un pallone in profondità. Maksimovic sbaglia la copertura e Sturaro crossa in maniera sbilenca. Ne esce una parabola che supera Padelli, inchiodato sul primo palo e sulla linea di porta come un portiere del Subbuteo. Appostato sul palo lontano c’è Gilardino che, da due passi, spinge in rete con un tocco tanto goffo quanto efficace, a metà tra petto e pancia.
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Adesso non sono inquieto, sono imbestialito e non ci vedo dalla rabbia. Ventura inserisce prima Meggiorini e poi Barreto, l’arbitro decreta quattro minuti di recupero. Novantaduesimo minuto. El Kaddouri innesca Immobile con un filtrante rasoterra. Il passaggio è corto, Burdisso prova l’anticipo, il nove granata protegge la sfera, la lascia scorrere e se la porta avanti con tre piccoli tocchi: movimento circolare e destro a giro sul palo lontano. Il portiere genoano Perin spinge sulle gambe, ma non basta: il pallone si insacca alle sue spalle nonostante il lieve tocco con la mano di richiamo. Burdisso si dispera per il suo errore fatale, Immobile esulta sotto la curva e si toglie la maglia.
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La Maratona impazzisce e intorno a me succede di tutto. Non esulto, anzi, impreco, mandando tutti al diavolo. La mia delusione sfocia in grida belluine. Mentre Immobile rientra in campo, un tizio mai visto, mi guarda e dice: “Andiamo a vincerla.” C’è frastuono, non riesco a decifrare la frase e forse mi ha detto qualcos’altro o forse è quello che ho immaginato. Le mie orecchie non sentono, è come se fossi in una gigantesca bolla. La gente urla, ma io vedo solo indistinti movimenti di labbra. Sono passati trenta secondi dal gol del pareggio, lo stadio è una bolgia. Il pubblico si è come ridestato e adesso tutto appare possibile, come se si fosse spezzato un incantesimo. Le facce intorno a me sono nuovamente cambiate, l’aria è diversa, c’è profumo di impresa.
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Il Genoa rimette in gioco il pallone e Antonini lo calcia malamente, colpendo Meggiorini. La palla schizza verso Gazzi che, con un tackle scivolato, anticipa Bertolacci e regala il pallone a Cerci. Il numero undici è spalle alla porta, nel cerchio di centrocampo, si gira e punta dritto verso l’area genoana. L’udito è tornato, sento il pubblico che accompagna Cerci nel suo avvicinamento a grandi falcate, verso la Maratona. Tra i ventuno in campo, solo Marchese comprende che sta per accadere qualcosa di speciale, solo lui ha fiutato il pericolo: Cerci lo punta, doppio passo e palla sul sinistro. È un oscuro presagio. Marchese, senza troppa convinzione, prova ad affondare il tackle, poi cerca il fallo ma Cerci lo supera in velocità, si decentra e da diciotto-venti metri scaglia un sinistro di interno collo, diretto all’incrocio dei pali. Il tiro è potente, angolato, ha una traiettoria magica. La palla bacia il montante sinistro e finisce in rete. Viene giù lo stadio.
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La gente si abbraccia, qualcuno si bacia, nascono nuove coppie che, probabilmente, oggi hanno figli di nome Ciro e Alessio, vecchi dissapori vengono accantonati, qualcuno si lascia andare ad un pianto liberatorio, altri urlano frasi incomprensibili scomodando il divino, sacramentando a destra e a sinistra in maniera del tutto gratuita. Volano bicchieri di birra, sciarpe, mentre una ragazza formosa si sfila il reggiseno e lo lancia tra la folla, un pazzo batte con forza le mani contro il vetro della recinzione che separa la curva dalla tribuna e il sottoscritto resta seduto a smoccolare, incavolato nero. Willy mi abbraccia, Paolo stabilisce il record di gesti dell’ombrello consecutivi, Claudio è paonazzo ha gli occhi fuori dalle orbite, Leo mi chiede un cinque.
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Il tempo sembra come sospeso. Non guardo il campo, guardo la curva, le facce della gente e le bandiere che sventolano. Mi alzo, mi sistemo la sciarpa, scendo i gradoni e mi incammino verso l’uscita proprio mentre l’arbitro decreta la fine del match. Qualcuno mi chiama, poi, mentre esco, squilla il telefono ma non rispondo. Di quella partita ricorderò quei sette minuti e un’immagine nitida: la folla impazzita e io che impreco contro chiunque. Sette minuti di odio in quarantotto anni di tifo, sette minuti che mi servirono per capire definitivamente cosa sia per me il Toro. Per questo, quando mi chiedono, -che cos’è per te il Toro?-, parafrasando Louis Armstrong rispondo: “Cos'è il Toro? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai.”
Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.
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