Estate 1987. La scuola è finita da poco. Si parte per i centri estivi, il campeggio, le colonie, i più fortunati vanno al mare in vacanza al seguito dei nonni. Qualcuno resta in città. Giugno è ancora un mese per pochi, ma da luglio in avanti la città si svuota lentamente e ad agosto Torino diventa un deserto. Gli anni Ottanta non sono ancora finiti e quella fabbrica nei pressi di Torino sud ha ancora un certo potere decisionale sulle vacanze di molti torinesi. Gente di mare impazza nei juke-box degli impianti balneari, e non solo, mentre una serie infinita di pezzi clamorosi riempie le radio nostrane. È il bello dell’estate, che piaccia o meno, in bilico tra la nostalgia e la felicità di sentirsi liberi, scevri da ogni incombenza, soprattutto quando sei un ragazzino che va ancora alle medie. L’estate a quell’età, era questo: libertà, voglia di divertirsi, mare, sole, amici, fidanzatine.
GRAN TORINO
Sogni di una notte di mezza estate
LEGGI ANCHE: Aspettammo Safet
Il campionato di calcio era finito da qualche settimana. Il Toro aveva prolungato i suoi impegni con un viaggio in Giappone. Tra Sapporo, Shizuoka, Nagoya e Tokyo, si disputa la Kirin Cup, una specie di tournée esotica ante-litteram, che riallaccia i rapporti dei colori granata con il mondo. Non dobbiamo dimenticare che il Toro è la squadra che ha inaugurato l’Atzeca (sì, quello di Città del Messico, quello di Italia-Germania del 1970, 4-3, la partita del secolo), la squadra che viaggia in Sud America nel 1914 (tournée in Brasile e Argentina) e nel 1948 (nuovamente in Brasile), e che mai prima d’ora era stata in Asia. Quattro partite, due vittorie, un pareggio e, purtroppo, una sconfitta nella finale per il primo posto: battiamo la nazionale senegalese per tre reti ad una, poi pareggiamo con la Fluminense (1-1) e vinciamo con la nazionale nipponica per uno a zero. Nella finale incontriamo nuovamente la Fluminense, a Tokyo, e perdiamo per due a zero. Il Toro giapponese è una squadra stanca, vuota, demotivata dall’undicesimo posto finale in campionato e da una serie di delusioni che l’annata appena terminata gli aveva lasciato in dote. L’eliminazione dalla Coppa UEFA alla soglia delle semifinali, in quel di Innsbruck, il cammino in coppa Italia, le tante sconfitte stagionali e i rapporti nello spogliatoio erano chiari segnali di un’aria pesante che negli anni a venire sarebbe diventata irrespirabile. Radice non partì alla volta del Giappone (e nemmeno Dossena, Kieft e Francini) e la situazione societaria, proprio in quei giorni, stava precipitando rapidamente. Sergio Rossi era uscito definitivamente di scena e il Toro passava nelle mani di Mario Gerbi e Michele De Finis. Il mercato venne impostato all’insegna di un repulisti generale. Uscirono Copparoni e Martina, Beruatto, Pileggi, si ritirò Zaccarelli (ultimo esponente della rosa dello scudetto) e vennero ceduti i pezzi grossi Dossena, Junior, Kieft e Francini. E in entrata?
LEGGI ANCHE: Una fiammata d’orgoglio
Il Toro mirò in alto soprattutto per quanto riguardava il futuro centravanti, il cui nome evocava scenari di livello assoluto: Mark Hughes, gallese, in forza al Barcellona, ex Manchester United, soprannominato The Bull (nomen omen). L’attaccante era in rotta con i blaugrana e il Toro fiutò l’affare. Prestito, e non acquisto, di un cartellino da oltre dieci miliardi di lire dell’epoca, ingaggio monstre da 850 milioni netti a stagione, due anni di contratto. Il Toro prende il Toro, si sogna e nemmeno poco. Sui quotidiani sportivi non si parla d’altro, anche perché nel frattempo, i dirimpettai cittadini hanno ingaggiato il super bomber del Liverpool, anch’egli gallese, Ian Rush. Il derby inizia a luglio e il dualismo tra i cannonieri alimenta i sogni dei tifosi. Hughes è il potente centravanti vecchio stampo, lo sfonda reti, una specie di peso medio dal pugno mortifero, un toro, per l’appunto. Gioca con l’iconica maglia numero dieci e non con la nove, ha ventiquattro anni, i ricci sulla fronte e un fisico massiccio: quando protegge palla fa valere i suoi chili e con quel movimento delle braccia, sembra un albero secolare che affonda le sue radici nel terreno. Il gesto tecnico è emblematico perché Hughes è un attaccante generoso che prende posizione e apre spazi per i suoi compagni. La fantasia e il desiderio si mescolano insieme alla necessità di dare alla piazza un nome importante, carismatico che faccia dimenticare le cessioni eccellenti.
LEGGI ANCHE: Com’è triste La Spezia
"Il desiderio è brace che ha bisogno di essere spenta, perché se la lasci bruciare appicca il fuoco al cuore.
Il mare ha dei confini, il desiderio non ne ha nessuno". William Shakespeare
De Finis e Bonetto erano sicuri di portarlo a Torino, “affare praticamente concluso”, dissero. Fu quel “praticamente” a fregarci e alla fine dell’estate, Mark Hughes si trasferì al Bayern Monaco per poi tornare allo United dopo appena una stagione, voluto fortemente dal suo mentore, Sir Alex Ferguson. In quella squadra, Hughes si consacrerà definitivamente facendo incetta di trofei: due Fa Cup, una Coppa delle Coppe, due campionati inglesi, una Supercoppa europea, una Coppa di lega, tre Charity Shield. Il Toro si consolò con l’arrivo della Scarpa d'oro, l'austriaco Anton Polster, ribattezzato subito Tonigol o Golster. Resterà al Toro solo un anno, ma che goduria.
LEGGI ANCHE: La sera dei miracoli
"Non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi". William Shakespeare
Estate 1990. Dopo una primavera scolasticamente tragica, ecco arrivare una estate a dir poco travagliata.
Fu un’estate italiana, in tutti i sensi. Sportivamente, musicalmente, un momento storico per il nostro paese, qualcosa di epocale. Il mondiale italiano era sale sulle ferite di uno studente che doveva recuperare a settembre due rimandature crudeli, addirittura più crudeli della delusione azzurra deflagrata in una triste notte napoletana di luglio. Che non fosse tempo di stelle fulgide, me ne resi conto quando i principali quotidiani sportivi nazionali, titolarono a nove colonne: “Lineker al Toro". Gary Lineker? Quel Gary Lineker, ex Everton ma soprattutto ex Barcellona, ora in forza al Tottenham, che stava trascinando a suon di gol l’Inghilterra a Italia ’90. Si trattava di un altro tormentone estivo, per un altro centravanti, bomber implacabile, anch’esso con la maglia numero dieci, compagno di squadra di Hughes al Barcellona. Se Hughes era un centravanti di manovra che vedeva la porta, Lineker era il centravanti cannoniere, anche egoista se vogliamo, ma terribilmente efficace in zona gol. Di lui si ricordano le caterve di gol, praticamente uno ogni due partite, e il singolare record di calciatore mai ammonito né tantomeno espulso nell’arco di tutta la carriera. Spietato, regolare, metodico nel firmare il tabellino dei marcatori, lapidario e laconico nell’accettare la più cocente delle sconfitte, forse la sua più grande ferita calcistica, che avviene proprio in quello che sarebbe potuto diventare il suo stadio, il Delle Alpi.
LEGGI ANCHE: La magnifica illusione
4 luglio 1990, Torino, Germania-Inghilterra 5-4 (dopo i calci di rigore) consegnò agli inglesi il miglior risultato dal 1966 in una competizione mondiale (la semifinale e il successivo quarto posto) e regalò agli amanti del calcio una delle frasi più iconiche di sempre. A pronunciarla fu proprio lui, Gary Lineker.
Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince.
La sconfitta inglese a Torino, al Delle Alpi, lo stesso numero di maglia di Hughes, l’annata dei due centravanti, insieme in quel di Barcellona, suonarono come strane congiunzioni astrali, un cattivo presagio. Borsano, presidente del Toro appena tornato in A dopo un anno di purgatorio, stava costruendo una squadra competitiva. I tifosi erano entusiasti soprattutto Cooper l’arrivo di Rafael Martin Vazquez, strappato per qualche miliardo al Real Madrid. Fu un acquisto clamoroso, perché il calciatore, perno della squadra più iconica del mondo, titolare della nazionale spagnola, accettò di trasferirsi sì in Italia, ma in una neopromossa. Il 2 luglio 1990 viene acquistato Rafa e qualche giorno dopo, Borsano annunciò che le trattative per Lineker erano a buon punto e che l'affare si sarebbe potuto concludere sulla base della cessione di Skoro al Tottenham (che l'aveva già richiesto l'anno prima) più un conguaglio di 4 miliardi. L’all in di Borsano era tutto su Gary Lineker ma come spesso accade, anche questa trattativa sbandierata ai quattro venti e data per chiusa troppo presto, diventò prima un tormentone e poi una cocente delusione. Lineker resterà agli Spurs e quelle notti magiche resteranno l’ennesimo sogno granata, spezzato, di mezza estate.
LEGGI ANCHE: Chiedi chi era Marko Topic
Il centravanti del Toro di Borsano alla fine sarà il Buitre nostrano, fatto in casa, Giorgio Bresciani, che con tredici reti si laureò capocannoniere stagionale della squadra. La tradizione granata per i calciatori albionici non proseguì sotto il segno di questi due campioni: dopo Law e Baker, bisognerà aspettare fino al 1997/98 per rivedere un calciatore britannico con la casacca granata, Tony Dorigo, poi nel 2016 toccherà a Joe Hart difendere i pali della nostra porta.
Hughes e Lineker sono rimpianti così grossi che credo di averli sognati o immaginati con la maglia del Toro addosso, almeno cento volte in vita mia. Fanno parte di quella categoria di calciatori che vorresti nella tua squadra anche se dovessero fallire miseramente, solo per l’hype che si portano dietro. Forse perché ti senti quasi lusingato nel pensare che fuoriclasse simili ti scelgano. Un po’, come se la più bella della scuola si mettesse con te. Furono estati difficili. Belle, complicate, deludenti, crudeli, come solo possono esserlo quelle dell’adolescenza. E senza nemmeno Hughes, Lineker o un bacio della più bella della scuola.
Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA