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Una fiammata d’orgoglio

Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Gran Torino", a cura di Danilo Baccarani

Avete una partita che scatena ricordi e sensazioni particolari? Certo che ce l’avete. Forse anche più d’una. Io stesso farei fatica a indicarne una tra tutte quelle che ho visto nei miei quarantotto anni di vita. Ma questa di cui andrò a raccontarvi la storia è la mia madeleine proustiana, forse perché conteneva al suo interno un misto di speranza e di rabbia, di impotenza e di sfida verso l’impossibile. Rimasta nei miei ricordi, tra i tanti di questa dannata smania di classificare sempre tutto e di mettere in fila eventi, momenti, persone, questa è, ancora oggi, la partita della speranza. Sapevo, sapevamo tutti, inconsciamente, che sarebbe stato inutile vincere quel match, senza vincere quello successivo: era scritto. Vivevamo la tipica sensazione dello studente disperato, che ha oziato durante l’anno e nel rush finale è costretto a prendere, per evitare la bocciatura dopo un quadrimestre di delusioni varie, una infilata di sufficienze piene, di voti superiori alla sua media. Una sensazione da fine scuola, con l’estate alle porte, i tabelloni che stanno per uscire, conscio che l’happy ending non farà parte di quella storia.

11 giugno 1989. Mancano due giornate alla fine del campionato. Lottiamo per la salvezza ed è la prima volta da quando sono al mondo che si presenta questa situazione tanto che non riesco nemmeno a realizzare il pericolo che stiamo correndo. Il Toro è stato in B una volta sola nella sua storia e quella annata, per molti, è solo qualcosa da farsi raccontare da nonni e genitori o da leggere sfogliando un albo. Non voglio immaginare uno scenario simile. Sono stato abituato a vedere versioni gagliarde del Toro, magari lacunose, incompiute, sfortunate, ma che lottavano con le unghie e con i denti, squadre che raggiungevano traguardi importanti in campionato, che lanciavano giovani e disputavano regolarmente le coppe. La serie B? No, dai, figurarsi. Quell’anno, però, la classifica era stata deficitaria sin dall’inizio della stagione.

A questo punto del campionato è anche corta, complici risultati ballerini, beffardi, indigesti: lo spettro della retrocessione aleggia sulla squadra, sulla società da poco rilevata da Gian Mauro Borsano e sulle teste di noi tifosi. In classe, a scuola, siamo convinti che ci salveremo. Non abbiamo ancora la malizia per capire certe cose, né ci rendiamo conto che i disegni astrali sono già chiari e ben definiti. In quella stagione abbiamo cambiato tre allenatori (Radice, Sala, Vatta), abbiamo lanciato in prima squadra Alvise Zago, il giovane più talentuoso del vivaio e gli abbiamo visto finire anzitempo la stagione (e praticamente la carriera) per un infortunio gravissimo. Il suo ginocchio destro è andato praticamente distrutto, con la rottura di entrambi i legamenti e della capsula articolare, il che significò, per le conoscenze chirurgiche dell'epoca, uno stop di un anno e mezzo. Zago non aveva ancora vent’anni. Un colpo terribile per lui, ma anche per noi. Non sappiamo, comunque, che il peggio dovrà ancora arrivare. Alla terzultima di campionato abbiamo espugnato Como grazie alle movenze feline di Müller e a una delle punizioni più iconiche mai viste alle nostre latitudini: la parabola è alla Roberto Carlos, o se preferite alla Rivelino o alla Roberto Dinamite, il mancino (ahinoi, purtroppo) è solo, quello di Edu Marangon, il brasiliano magro ed emaciato con i riccioli e lo sguardo triste.

I giorni che ci separano dalla prova del nove sono lunghissimi. Sicuramente i ricordi si confondono ma quel giugno sembra interminabile,  la scuola era finita, le giornate estive di quel campionato infinito si protrarranno fino alla fine del mese. Quantomeno inusuale, ma questo è il ritorno del campionato a 18 squadre, l’ultimo fu quello del 1967/68, che prevede ben quattro retrocessioni (sigh!). Ma ripeto, di retrocedere, noi tifosi non vogliamo nemmeno sentirne parlare. La Maratona, come spesso capitato nella nostra storia, segue la squadra con passione sanguigna, è una cosa indimenticabile, sembra di giocare in casa, anche quando siamo in trasferta. Il trenino dei tifosi sulle tribune del Sinigaglia di Como, nonostante la situazione di classifica, è fantastico. Ci siamo, ci crediamo e siamo anche di buon umore.

La conditio sin qua non era molto semplice: vincere tre partite di fila, Como, Inter e Lecce, per restare in serie A. Facile a dirsi, non fosse che in quella stagione, il Toro, tre partite di fila non le aveva mai vinte. E se la prima vittoria era arrivata, adesso era il turno della più complicata, di quella che pareva impossibile, perché al Comunale, il 18 giugno attendiamo la neo-scudettata Inter di Giovanni Trapattoni. Una squadra d’acciaio, con i tedeschi Brehme e Matthaus, la lucida regia di Matteoli, i voli di Zenga, una difesa imperforabile (Bergomi-Baresi-Ferri) e un attacco ben assortito formato dall’ex Aldo Serena e dall’argentino Ramon Diaz. Una sola sconfitta, alla diciassettesima di campionato (4-3 contro la Fiorentina), certifica che lo scudetto dei nerazzurri è più che meritato. E se in quella stagione sotto la Madonnina pioveranno record, sotto la Mole voleranno madonne.

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Quella domenica siamo in Maratona, stranamente posizionati verso i distinti. Il pubblico è quello delle grandissime occasioni. Per scrivere questo pezzo sono andato a spulciare il numero esatto di spettatori e vi giuro…sembravamo il doppio. Al Comunale quella domenica c’erano poco più di 38mila persone. Papà aveva comprato i biglietti al Gran Café Stadium di Corso Vinzaglio e arrivammo, come nostro solito, molto prima del fischio di inizio, perché un po’ l’ansia, un po’ la paura di non trovare posto, insomma, ci siamo capiti. A fianco a me c’è un signore, radiolina all’orecchio, che guarderà distrattamente la partita, fumando una MS dopo l’altra. Praticamente accende la sigaretta successiva con il mozzicone della precedente e aggiorna la fetta di curva sui risultati delle altre partite. Eh già, perché nella bagarre della lotta salvezza, bisogna fare i conti anche con gli altri campi: curioso o fatale, in quella giornata, ben cinque partite su nove termineranno con il più salomonico dei risultati, zero a zero.

Al Toro serviva vincere. Punto e basta. Vatta prova a sorprendere l’Inter con una formazione che più granata non si può: Marchegiani, Ferri G., Farris, Benedetti, Cravero, Sabato, Skoro, Rossi, Muller, Fuser, Edu. A disposizione: Lorieri, Brambati, Comi, Gallaccio, B.Carbone. Tra campo e panchina nove giocatori su sedici provengono dal vivaio. Quando sei spalle al muro, la disperazione può essere una leva, ma credo che quelle scelte siano un rimando chiaro al senso di appartenenza, al senso del dovere, al rispetto di quella maglia. E chi meglio dei ragazzi cresciuti al Filadelfia possedeva tutti quei valori? È come se Vatta avesse chiesto a qualche tifoso sugli spalti, di mettere la maglia e scendere in campo per difendere il Toro, per rappresentarlo al meglio, per salvaguardarne l’onore e per salvarlo dalla B. Vatta ebbe a dire: “I giovani non sentono la tensione, sono troppo impegnati a far vedere cosa davvero valgono.” La partenza è fulminante. Il Toro nei primi minuti di gioco, forse perché spalle al muro, gioca all’arma bianca e Zenga viene sollecitato a più riprese. La prima immagine che ricordo è quella di Cravero che dopo aver provato il diagonale vincente (respinta di piede dell’estremo nerazzurro), si gira verso la Maratona serrando i pugni e urlando la frustrazione di un’annata che definirla storta, è fargli un favore. Il Toro, timoroso della risposta avversaria, gioca in attesa e prova a sferrare il ko, mentre l’Inter difende il fortino. Andiamo vicini al gol a più riprese con Edu, Ezio Rossi e Muller ma non c’è niente da fare.

Il primo tempo passa in un battito di ciglia. La sensazione è quella di non aver svegliato il can che dorme e, tutto sommato, se è vero che con il pareggio ci facciamo la birra, anche non essere sotto nel punteggio, contro questa Inter, è una cosa positiva. Vero che a loro mancano tre giocatori chiave come Riccardo Ferri, Matthaus e Brehme, ma questa versione del Toro è troppo fragile per scavallare una montagna così impervia senza un aiutino o una spintarella. Sulla carta, abbiamo solo più motivazioni noi, da vendere, mentre loro, beh, loro no. Allora è fatta? Non è così semplice. Fa caldissimo. Anche questo può influire sulle prestazioni di un gruppo stanco e appagato? Beh, sì! E su un gruppo disperato e alla canna del gas? Il caldo torrido, come lo valutiamo? Un fattore positivo o negativo? Nell’intervallo gli ottimisti professano tranquillità, mentre i pessimisti stanno già cantando il de profundis: potere della folla, ondivaga e irrazionale, saggia e responsabile. Ad Alessandro Manzoni piacerebbe questo elemento. Dopo pochi minuti dall’inizio del secondo tempo, al 53’, la partita cambia copione. Scambio Muller-Skoro sulla trequarti, il bosniaco anticipa la difesa interista, arriva al limite dell’area controllando un pallone che non fa altro che rimbalzare e, sbilanciato, calcia a rete. Ne esce un tiro angolato, non potente (ricordo nitidamente che la palla toccherà terra un paio di volte prima di superare la linea di porta) con Zenga che, impallato dal suo compagno Verdelli, viene preso in controtempo e rimane impietrito, senza poter intervenire. Uno a zero. Esultanza sfrenata. Pensai che adesso l’Inter si sarebbe quantomeno destata. E infatti l’Inter cambia marcia, perché ok pareggiare, ma perdere, anche no. E poi perdere contro chi? Contro il Toro più brutto da trent’anni a questa parte?

Quella era l’Inter dei record e non sembrava disposta a regalare punti. Solo che per cercare di recuperare lo svantaggio, i nerazzurri si espongono a qualche contropiede di troppo. Il Toro che gioca sui nervi è abile negli spazi e dopo aver sfiorato per ben due volte il gol con Gallaccio e Muller, raddoppia con un’azione meravigliosa di Cravero che parte in contropiede e arriva fino al limite dell’area, quasi stoppato dal muro dei difensori nerazzurri. Il capitano caracolla, attende, poi vede un pertugio e decide di farci passare il pallone. Scavetto morbido che buca la difesa interista per Muller che aveva dettato il movimento. Il brasiliano si infila alle spalle dei due difensori e con un gran diagonale mancino batte Zenga per il 2-0. Gli ardori dell’Inter si spengono subito dopo il gol del brasiliano, Zenga inveisce contro chiunque, il tizio con la radiolina fuma imperterrito. Il Toro non è salvo. Ma questa vittoria è un viatico pazzesco per la trasferta della speranza, quella di domenica 25 giugno, a Lecce. Quello fu il momento in cui mi chiesi davvero se avremmo potuto cambiare il nostro destino.

Lì, sugli spalti, mentre il sole bruciante ci cuoceva lentamente, guardavo quel mare granata cercando di capire se quella vittoria, solida e convincente, sarebbe presto svanita come la carrozza di Cenerentola. Quella fu una vittoria tanto bella quanto effimera. Quella sensazione di gioia durò lo spazio di un momento. Avevamo battuto i campioni d’Italia e non avevamo praticamente fatto nulla. Eravamo sul tram che ci riportava a casa e gli effetti di quella vittoria evaporavamo velocemente. Realizzammo che avevamo appena scalato lo Stelvio con una Graziella e adesso ci toccava salire sul Mortirolo con un triciclo. La sensazione di felicità ci trasportò fulmineamente in quel di Lecce: quella vittoria, da sola, non valeva una stagione o una salvezza e capii subito che sarebbe stata il preludio alla tragedia sportiva che si materializzò una settimana dopo al Via del Mare. Delusione, lacrime e la partita contro l’Inter finì per essere soltanto un ricordo sbiadito nel tempo, un’impresa d’orgoglio, un sussulto granata prima che il sipario decretasse la fine dello spettacolo.

Sabato, a distanza di trentaquattro anni, sarà ancora Toro-Inter, con motivazioni diverse, con un obiettivo che vale molto di più di quello che possiamo immaginare, per tutta una serie di ragioni che non sono solo economiche o sportive. Se varrà l’Europa, lo scopriremo solo vivendo (cit.) ma di fatto questo Torello di Juric, che ha seminato qualche punticino di troppo qua è là, ha bisogno di questo traguardo. Per essere consapevole, davvero, del suo valore effettivo, che non vale soltanto qualche punto più in classifica. È una questione di consapevolezza e non ci sarà mai nessun Via del Mare a togliertela.

Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.

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