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Una punizione beffarda

Una punizione beffarda - immagine 1
Torna l'appuntamento con "Gran Torino" la rubrica di Danilo Baccarani

beffa /'bɛf:a/ s. f. [prob. voce onomatopeica]. - 1. [azione fatta per schernire qualcuno] ≈ derisione, dileggio, irrisione, ludibrio, presa in giro, (fam.) presa per i fondelli, (volg.) presa per il culo, scherno, tiro. ↓ burla, canzonatura, celia, scherzo. ● Espressioni: farsi beffe (di qualcuno) ≈ [→ BEFFARSI]. 2. (estens.) [azione o fatto deludente rispetto all'aspettativa: è stata una b.] ≈ boccone amaro, delusione.

Sinonimi.

burla, scherzo, presa in giro, derisione, canzonatura, scherno, irrisione, farsa, gol subito in pieno recupero dal Toro.

Per presentare Lazio-Toro torniamo indietro di ventisette anni e ripeschiamo un grande classico in salsa granata.

Una delle tante portate della cena delle beffe di cui è costellata la nostra storia.

Il destino con noi non si limita al minimo sindacale, si accanisce ogni volta in maniera diversa e fantasiosa, ma questa volta, la burla servita all’Olimpico di Roma, in una fredda serata di gennaio, fu uno scherzo in confezione extra lusso. Stagione 1995/96, ultima partita del girone di andata. Il Toro di Sonetti e dei due derby vinti nella stagione precedente, è un lontano ricordo.

Il tecnico di Piombino ha pagato un inizio difficoltoso, il mancato ambientamento dell’unico turco con la saudade, Hakan Sükür, e un mercato non convincente fatto di troppe scommesse e di cessioni dolorose.

All’esonero di Sonetti seguì l’avvento filosofico e naive di Franco Scoglio.

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Immaginifico come un testo di Battiato, iconico, macchiettistico, caricaturale e controverso come Mattia Pascal, incompreso come un professore di pedagogia prestato al calcio, il Professore conosciuto per le sue massime (“Io non faccio poesia, io verticalizzo”) prese il Toro e lo rianimò in poche settimane.

La sua fu una terapia d’urto, un placebo che, purtroppo, alla lunga non sortì alcun effetto benefico e alla vittoria sul Piacenza, seguirono tre pareggi contro Milan, Cremonese e Parma. Il Toro sembrava una squadra diversa, aveva ritrovato una precisa identità e si presentava al cospetto della Lazio con il piglio giusto.

Il Professore aveva teorizzato tutto, nonostante le squalifiche pesanti (Cristallini e Dal Canto) e l’indisponibilità di Abedì Pelé e Simo, entrambi in coppa d’Africa.

Scoglio aveva studiato Zeman e la sua Lazio, ne aveva bloccato le mosse con un prudente 4-4-2 in grado di chiudere ogni spazio utile.

Qualcuno mi ha detto: “Se scrivi di Scoglio, non accostargli il catenaccio, sarebbe ingeneroso.”

Allora mettiamola così, Scoglio non avrebbe detto catenaccio, bensì: “Teorizziamo spazi claustrofobici per precludere alla controparte di realizzare una segnatura. Organizziamo strutture di gioco paradigmatiche del gioco difensivo che bramano l’annullamento logico di ogni rischio. Queste risultanze si ottengono proteggendo la propria rete come farebbe una falange oplita. Non confondetela con il comportamento di quella macedone, che è oramai superata dagli eventi. Eventi chiari e indecifrabili.”

Se a Genova, la zona sporca, con Signorini libero portò i suoi frutti, la pietra angolare di quel Toro era Roberto Bacci, difensore centrocampista di scuola granata.

Scoglio lo aveva impiegato in diversi ruoli, in copertura, a protezione della difesa, da play, da libero.

Nella battaglia dell’Olimpico, Bacci si sistemò su Esposito, per dare manforte sul lato sinistro a Karic e Milanese.

Maltagliati prendeva a uomo Casiraghi, su cui Cravero era pronto in seconda battuta. A destra Falcone si occupava di Rambaudi, Bernardini faceva da schermo davanti alla difesa, mentre Angloma e Minaudo in mezzo al campo, si dividevano tra Winter e Di Matteo.

Zeman era stato bloccato e anestetizzato nei suoi principi di gioco. Il Toro resisteva e attendeva il momento propizio per colpire e in contropiede, of course, metteva i brividi ai 40mila dell’Olimpico, prima con Rizzitelli, poi con Bernardini che staffilava di poco a lato e, infine, con Milanese che impegnava l’ex Marchegiani. Caniato nuovo numero uno in pectore al posto del contestatissimo Biato (a cui la Maratona dedicò il geniale coro “Biato, il palo ti ha salvato” - a seguito di una conclusione stampatosi sul montante in una partita casalinga), si superò in due occasioni prima su Negro e poi su Iannuzzi. La Lazio cingeva d’assedio l’area granata: Iannuzzi per Marcolin, alto sulla traversa, poi Casiraghi per Bergodi e tiro strozzato che finiva tra le braccia del portiere del Toro.

A questo punto con il risultato bloccato sullo 0-0, Casiraghi invocava un rigore per una presunta trattenuta di Maltagliati: per molto meno, in altri tempi, e con altri interpreti in maglia granata, una sceneggiata di quel genere sarebbe finita in rissa. L’arbitro Bettin lasciò correre. L’Olimpico suonava la carica ma era un ex romanista a quietare i bollenti spiriti laziali. Dionigi al volo serviva Rizzitelli. L’attaccante pugliese, con un gioco di prestigio, in palleggio, sgusciava tra Chamot e Negro e si lanciava verso la porta difesa da Marchegiani. Rizzi-gol con un pregevole scavetto batteva l’estremo biancoceleste per l’1-0 granata. Era il minuto 80’.

Scoglio e il Toro con una condotta irreprensibile, figlia di un disegno perfetto, stavano per portare via l’intera posta in palio. Ma nemmeno un fine stratega come il Professore poteva decifrare i voli imprevedibili, le ascese velocissime, le traiettorie impercettibili - e financo - i codici di geometria esistenziale che ruotano come dervisci attorno al Torello.

Tantomeno poteva prevedere che una follia estemporanea, mandasse all’aria, improvvisamente, il suo piano tattico. Marcolin crossava disperatamente un pallone dalla trequarti, buttandolo “In the box”, come dicono gli anglosassoni quando si profila un arrembaggio. Ne usciva un cross lento, leggibile, né imprevedibile, né pericoloso su cui si avventava, in netto anticipo, lo stopper granata, Roberto Maltagliati. Il gesto atletico, scomposto, lo stile, rivedibile.

Ho provato più volte ad immaginare cosa stesse pensando Maltagliati mentre era sospeso in aria. Forse aveva pensato di essere Juri Gagarin, forse il lunghista Bob Beamon, forse aveva percepito un potenziale pericolo ed era preoccupato di avere un avversario alla sue spalle. Forse era stato distratto, forse fu l‘autore di un gesto scellerato. La sua chioma fluente accompagnava il movimento, Maltagliati allargava il braccio e colpiva la palla con la mano destra, con una specie di gancio pugilistico. Un gesto assurdo quanto inaspettato. Maltagliati aveva perso contezza del suo corpo e, saltando, si era disunito. Quando l’arbitro, senza indugio, aveva indicato il dischetto del rigore, Maltagliati sembrava quasi stranito, non tanto dalla decisione dell’arbitro, quanto dalla sua azione. Aveva compiuto una follia, al limite dell’area di rigore. Forse dentro, forse fuori.

Dicevamo del destino e del raro sadismo, da cui spesso veniamo accompagnati: del resto siamo o non siamo la squadra dei tre pali di Amsterdam e dei due pareggi che assegnano una Coppa? Siamo o non siamo quelli del palo di Dorigo ai rigori, dopo 113’ in inferiorità numerica, nello spareggio contro il Perugia? E non siamo sempre quelli che fanno 50 punti e perdono lo scudetto di un punto ai danni dei rivali cittadini? Ma non era meglio perdere 5-0 ad Amsterdam, venire asfaltati senza un fiato dal Perugia di Gaucci e arrivare sì, secondi, ma ad una dozzina di punti come capita a tutti gli altri?

Questo Lazio-Toro è stato una specie di test per vedere fino a che punto si possano sfidare i tifosi granata. I giocatori protestavano e il guardalinee richiamava Bettin convincendolo a cambiare la sua decisione: non era rigore, ma semplice punizione dal limite dell’area. Il VAR? Roba da pivelli. A questo punto erano i laziali a protestare. Bettin sistemava il pallone a terra e catechizzava gli uomini in barriera. Tiravamo un sospiro di sollievo del resto una punizione non è certo un rigore. Sul punto di battuta ci andava Iannuzzi, giovane virgulto del vivaio laziale. L’ottimismo saliva in maniera esponenziale. Tiro, palla alta e fischio finale: l’happy ending starter pack di ogni tifoso normale, ma non di quello granata.

La domanda sorgeva spontanea: “Perché la Lazio che ha diversi campioni in campo, tra cui diversi tiratori, sceglie un ragazzino sconosciuto per battere una punizione che ha il sentore dell’ultima spiaggia?” Qualche piccolo dubbio si insinuava prepotentemente nelle nostre teste. Il giovanotto al suo secondo scampolo di partita in serie A prendeva una breve rincorsa. Passetto, tiro calibratissimo (non particolarmente angolato), palla che scavalcava una barriera disomogenea e batteva Caniato. 1-1. Iannuzzi segnava il suo primo gol in serie A, scavalcava i tabelloni pubblicitari e volava sotto la Nord a festeggiare con i suoi tifosi. Diabolico. Ti illudo perché il peggio è passato, ma ti castigo in maniera fantasiosa, proprio sul rush finale. Quinto risultato utile per il Toro, miglior striscia positiva stagionale. Tanto per gradire.

Deve essere destino che questa sfida, a Roma, soprattutto nel passato recente, si decida spesso sul filo di lana: nel 2014, con gol di Candreva, al 94’, per un rocambolesco 3-3. Oppure l’1-1 del 2022, con gol di Immobile al 92’. Ma soprattutto con lo 0-0 del 2021, nel match dei veleni, con Immobile che sbaglia un rigore all’87’ e manda in serie B il Benevento di Pippo Inzaghi, il fratello del suo Mister.

Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.

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