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columnist
Per mano a mio papà e nell’aria l’odore delle salamelle, quello stadio immenso che metteva soggezione solo a guardarlo. Pioggia sottile, freddo, il Toro fortissimo e quei due là davanti che erano il nostro orgoglio. Bastava dire di essere granata e gli amici ti guardavano con rispetto, dire che eri del Toro era come dire Graziani e Pulici, era portarsi avanti, partivi uno a zero anche in cortile e con gli amici e nei giorni di scuola. Da quel giorno San Siro è diventato la mia idea di trasferta. Anche adesso che vivo a Milano e sono passati 43 anni, anche adesso che il calcio è cambiato e niente è più come prima, quello stadio è la mia idea di fierezza granata.
Che giornata il 14 dicembre 1975. Era la mia prima trasferta, arrivammo da Torino in macchina e mio padre, come sua consuetudine, parcheggiò a una distanza siderale fregandosene della pioggia e della temperatura. Fu una giornata memorabile, ci schieravamo con quella che non era una formazione ma una filastrocca: castellinisantinsalvadoripatriziosalamozzinicaporaleclaudiosalapeccigrazianizaccarellipulici. Se esiste un over 50 che non la conosce, alzi la mano: non è un vero granata. Che giorno quel giorno: Zaccarelli ci portò in vantaggio, fuga sulla sinistra, dribbling a rientrare e botta a infilare Albertosi, urlai come un pazzo, mio padre mi disse di non esagerare, non eravamo al Comunale. Un po’ ci rimasi male, un po’ pensai che aveva ragione. Poi nel secondo tempo loro pareggiarono con Maldera, un gol strano, sono tutti strani i gol che prendiamo, sembrano sempre colpa nostra, mai una volta che ci venga da dire che non potevamo farci nulla; a dieci anni come a sessanta, nulla come il tifo ci rende infantili e privi di senso della misura. Eravamo in mezzo ad altri granata, qualcuno diceva che Castellini era uscito in ritardo, mio padre scuoteva la testa, io ricordo un groppo in gola. Poi a sei minuti dalla fine arrivò la meraviglia, il sigillo inconfondibile della giornata indimenticabile. Claudio Sala se ne andò sulla sinistra e di tacco appoggiò a Salvadori, cross in mezzo e come un angelo comparve in area Ciccio Graziani che in tuffo di testa la buttò dentro. Fu il delirio, io rimasi ammutolito, troppa gioia, esultai in ritardo; mio padre, con la proverbiale coerenza che lo contraddistingueva quando di mezzo c’era il Toro, mi disse di darmi una svegliata. Cosa fai? Non urli? Fatti sentire dai milanesi, siamo mica al Comunale. Molti giocatori corsero dal mister, ricordo Mozzini e Caporale, Gigi Radice era in mezzo al campo con il pugno alzato, era il pugno del riscatto, era il Toro che di lì a qualche mese ci avrebbe regalato la più grande gioia sportiva della nostra vita.
Gigi Radice e undici grandi contro tutti, Gigi Radice e i suoi occhi celesti, Gigi Radice e la sua rabbia dopo la partita dello scudetto, furioso per non aver centrato la quindicesima vittoria casalinga su quindici. Capito ragazzi? Capito cos’è il Toro? E’ vero, ci sono state anche Cittadella e Castel di Sangro, ma noi siamo quelli che hanno dominato il mondo per un decennio, quelli che il giorno dello scudetto hanno maledetto il destino per non aver vinto anche l’ultima partita, quelli che non mollano mai e contro tutte le logiche del mondo sognano un giorno di tornare in cima. Cosi non fosse, non saremmo tifosi, ma simpatizzanti, ragionevoli travet della domenica.
Gigi Radice e il suo ritorno a Torino, Gigi Radice e il secondo posto del 1985: che i pali di quel Torino-Verona 1-2 siano maledetti come i legni di Amsterdam. Gigi Radice, il più grande allenatore della storia del Torino, Gigi Radice che ieri sarebbe stato contento di vedere un Toro capace di andare a San Siro con il piglio autoritario di chi lotta, pressa e gioca alla grande per settanta minuti. Certo, ieri i gemelli del gol e il poeta non erano in campo, con loro il primo tempo sarebbe finito due a zero, ma bando ai ricordi, il Toro ha convinto per organizzazione di gioco e solidità difensiva. Onore a Mazzarri, dieci trasferte consecutive senza perdere e la quarta miglior difesa del campionato non nascono per caso. Forse manca ancora qualcosa a livello di schemi offensivi, forse manca un giocatore come Ljajic capace di mandare in porta gli attaccanti con una giocata, forse le cose cambieranno quando il Gallo ritroverà una maggiore confidenza con la porta e Zaza tornerà a essere presentabile. Nel frattempo perché non provare a dare qualche chanche a Vincenzo Millico, talento purissimo della Primavera capace di segnare 18 gol in 11 partite? Nel 2016 il Manchester United lanciò in prima squadra il diciottenne Marcus Rashford in una partita di Europa League; prestazione strepitosa, doppietta e da quel giorno una carriera in continua ascesa. Per rimanere a casa nostra, pensiamo a Donnarumma, Cutrone, Zaniolo, Sensi o Barrow, lanciati giovanissimi in Serie A. Perché noi no? Non conta l’età, conta quanto sei forte. E Millico è fortissimo.
Marco Cassardo, esperto in psicologia dello sport e mental coach professionista. E’ l’autore di “Belli e dannati”, best seller della letteratura granata.
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