“Inchiodali”!
Loquor
I cento metri di Lamont Marcell Jacobs
Torna Loquor l'appuntamento con la rubrica a cura di Carmelo Pennisi: "Siamo dei fantastici intrusi nelle vicende del mondo, e provare a stupire è la nostra unica vera ambizione"
Da “Night Falls of Manhattan”
Cento metri sono come un soffio dell’esistenza, e lo si sa bene mentre si attende lo sparo dello starter che ti immetterà in una delle tante corsie della vita. Poggi le mani sul tartan e allunghi i piedi verso i blocchi di partenza; probabilmente in quei momenti non si sente nemmeno il rumore di un respiro e neanche un refolo di vento fastidioso. Lo sguardo va verso il basso, a sottolineare quasi l’esigenza della necessità di non sapere nulla in anticipo sul mondo che verrà. No, meglio non guardare subito l’orizzonte davanti, c’è ancora tempo. La sensazione è quella di quando si passano i canonici nove mesi nel ventre materno, in una quiete sospesa tra una tranquilla incoscienza e i rumori del mondo, che pure giungono a turbare senza poter essere percepiti nella loro vera essenza. Cento metri indicano una distanza di cui si può conoscere lo spazio e la lunghezza, sapendo come ogni volta sarà diverso percorrerli. L’ignoto attende ogni volta prima di ogni sparo, ed è paziente fino al punto di essere scambiato per un sadico soverchiamente cinico. “Non c’è mai stato più inizio di quanto ce ne sia ora”, i versi di Walt Whitman ronzano senza sosta nella testa e ci vorrebbe un grande pubblico per giustificare ogni poema nascosto nell’attesa dell’ignoto. Ma lo “Stadio Nazionale del Giappone” ha il permesso di ospitare una decina di migliaia di persone, il Covid-19 ha disperso gli altri cinquantacinquemila potenziali presenze nel “Kamikaze” (vento divino) di una tipica giornata giapponese, dove la modernità dello skyline della capitale nipponica, con le sue luci multicolori, sembra dare senso logico alla credenza “shintoista” dell’esistenza di “Amaterasu”, divinità uscita dal ritiro della sua caverna per tornare ad illuminare la terra.
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Forse l’Imperatore Naruhito, che la tradizione nipponica vuole diretto discendente di “Amaterasu”, può comprendere quanta luce possono donare quei centro metri che si stanno per correre, una luce provocata dal fuoco scaturito da passi leggeri e pesanti nello stesso tempo. Probabilmente davanti al televisore ha chiuso gli occhi al momento dello sparo, posizionandosi in un imperiale raccoglimento da non potersi interrompere, visto che lui è il “Tenno”, ovvero il “Sovrano Celeste”. Ma anche se il brusio è quello di poche migliaia di persone, sai bene come il mondo stia attendendo con ansia e massimo rispetto quei cento metri infiniti. Si è davanti alla velocità pura, emozione quotidiana di un ghepardo con i suoi 130 km/h a quattro zampe. E come il ghepardo, lasciati i blocchi di partenza mostrerai potenza ed eleganza alla vista, mentre non rilevabile sarà la forza immessa, che è fatta di muscoli e di cuore. Aspetti l’inizio della corsa, e ritorni alla prima volta che hai osato immaginare di poter percorrere quel sentiero riservato ai bolidi, facendo fatica a pronunciare l’intenzione venuta su all’improvviso nell’anima: “voglio provare a diventare un centometrista”. Desiderare la via delle stelle sarebbe stato meglio, in fondo gli italiani Samantha Cristoforetti e Luca Parmitano nello spazio ci sono stati, e avere un precedente per non farsi ridere in faccia a volte aiuta. Allora, mettendoti dolcemente una mano sulla spalla, la tua prima parvenza di allenatore ti convince quanto sia meglio dedicarsi al salto in lungo, dove i precedenti azzurri di Fiona May e Giovanni Evangelisti danno speranza di qualche sogno olimpico. Perché se fai l’atletica non puoi non sognare le Olimpiadi, una diavoleria riesumata ad Atene nel 1896 da Pierre De Coubertein, con in testa anche l’idea di persuadere l’universo mondo come più che vincere fosse importante partecipare. Tutti i geni hanno delle stranezze con cui devono convivere, e che noi dobbiamo accettare.
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Il britannico Zharnel Hughes, a cui la frase dell’inventore delle Olimpiadi Moderne deve essere sembrata un delirio di un ubriaco appena uscito da un pub dell’Est End londinese, prova a fregarti sorprendendoti ancora rannicchiato a guardare il tartan in assenza di segnali dallo starter, e scatta un attimo prima nella speranza che il suo anticiparsi colga proprio il momento dello sparo. Non è sfortuna la squalifica del velocista britannico, ma eccesso di azzardo nel provare a cogliere una opportunità. Ritorni a concentrarti sull’attesa dell’inizio, e improvvisamente realizzi come in fondo non fossi proprio così male nel salto in lungo, ma se nasci a “Il Passo” (traduzione italiana di El Paso) prima o poi più che con un salto è con dei passi che vorresti confrontarti. Ed ora eccoti qui ad affrontare il tuo momento, mentre Zharnel Hughes si allontana verso l’uscita della pista ribadendo ancora una volta come il 2021 non sia affatto l’anno dell’Inghilterra. Arrivato a Tokyo qualcuno deve averti sussurrato che “ammettere uno sbaglio è il primo segno di una grande saggezza”, come ricorda la massima di Minamoto no Yoshitsune, il più grande “Samurai” mai nato nel Paese del “Sol Levante”, conosciuta da ogni giapponese che si rispetti. No, il salto in lungo non era proprio la tua strada. Nonostante i buoni salti e le prime vittorie fossero arrivate, la mente ti portava altrove, alla ricerca di una velocità ancora sconosciuta. “100 metri sono pochi, molto pochi”, deve averti detto, sconsolato, qualche tuo mentore e allenatore, “e poi non hai un precedente”.
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Nemmeno Pietro Mennea era riuscito ad affrontarli, ed aveva avuto bisogno dei 200 metri per riuscire a mostrare tutto il suo talento e tutta la sua classe. Mennea era un pugliese di Barletta, e come ogni buon meridionale aveva sempre bisogno di tempo per pensare e divagare, motivo per cui la prima parte dei 200 metri lo vedeva sempre come uno dei punti più lontani fra i concorrenti in gara, come in quella finale olimpica moscovita in cui Allan Wells, ormai certo della medaglia d’oro, se lo era visto sbucare come un segno avverso del destino diretto a tutta velocità sul trono più alto di Olimpia. Ma quello era Pietro Mennea, uno che a quindici anni, per pagarsi un biglietto al cinema, aveva sfidato sui 50mt una Porsche e un Alfa Romeo 1750, guadagnandosi l’ingresso ad una “prima visione” e anche un panino. Storie delle nostre parti da te conosciute bene, perché nonostante un padre americano hai voluto essere a tutti costi italiano, e sei cresciuto davanti al Garda, un mare travestito da lago, rifiutandoti persino di imparare l’inglese, affinché la tua scelta di cuore e di anima fosse chiara al mondo. Il Garda è il luogo di tua madre Viviana, a te legata in modo viscerale, ma che abbandoni dopo pochi istanti dello sparo dello starter, nell’esatto momento in cui finalmente riesci ad alzare lo sguardo verso quell’infinito fatto di cento metri improvvisamente spalancatosi davanti ai tuoi occhi. C’è l’attimo in cui si saluta il ventre materno e si viene al mondo, ed è paura, ed è meraviglia. Solo ora realizzi come avesse ragione il tuo mentore, nei 100 metri non c’è tempo per pensare e divagare, in quei dieci interminabili secondi l’attenzione è dedicata su come sprigionare potenza a terra nel modo giusto. Non c’è altro da valutare. I passi diventano sempre più veloci e incutono soggezione nei tuoi avversari, ora diventati sei, perché i muscoli tradiscono il povero Enoch Adegoke a metà del percorso. Il dolore fisico e morale è immenso, ma ha solo vent’anni e tanto tempo per rifarsi. Passano veloci e lenti i secondi, i cento metri si accorciano sempre di più e tu stai prendendo atto come la vita non sia solo un calvario di un “Golgota” elevato a coazione a ripetersi, ma anche un evidente segno di resurrezione. E la certezza della tua risurrezione ce l’hai solo nel momento in cui un folle avvolto da una bandiera tricolore, il Gianmarco Tamberi fresco vincitore dell’oro nel salto in alto, ti abbraccia urlandoti ad un orecchio che ora sei tu l’uomo più veloce del mondo.
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Il giorno dopo qualche giornale anglosassone fa aleggiare sopra di te lo spettro del doping, ma non preoccuparti. Provarono a diffamare anche Enrico Mattei, un altro italiano senza nessun precedente e sprovvisto di timore reverenziale verso chi parla inglese, ma oggi il logo dell’Eni del cane a sei zampe è temuto e rispettato in tutti il mondo. Siamo unici nel saper rompere veramente le scatole all’ego smisurato degli anglosassoni e dei tedeschi, che nel fondo della loro anima mal sopportano persino il mito della Ferrari. Siamo dei fantastici intrusi nelle vicende del mondo, e provare a stupire è la nostra unica vera ambizione. Lamont Marcell Jacobs da Desenzano del Garda, Italia, è il primo italiano a qualificarsi per la finale della specialità regina delle Olimpiadi ed è il primo italiano a vincerla. Viviana ha confessato di spruzzare dell’incenso, come rito propiziatorio alla vigilia di ogni gara, sulle prime scarpe da atletica del figlio. Ma non diciamolo ad americani e inglesi, perché potrebbero prefigurare il primo caso di doping esoterico. Tra molto tempo da oggi, Marcell scoprirà di essere stato un bel precedente, e apprenderà di aver cambiato qualcosa tra noi, un qualcosa che assomiglia ad un molto, notoriamente il contrario di poco. Non male davvero.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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