columnist

I nuovi mostri

I nuovi mostri - immagine 1
Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: "Spero proprio che ai nuovi “mostri” non sostituiscano definitivamente l'amore all'idolatria del feticcio"
Anthony Weatherill

“Poiché ricordo, dispero. Poiché ricordo,

ho il dovere di respingere la disperazione”

Elie Wiesel

 

Il 2018 del calcio ha avuto una coda inquietante e pericolosamente confusionaria. I più sembrano ormai aver perso la bussola del buon senso, e non si preoccupano nemmeno del significato delle parole pronunciate. Mattia Grassani, avvocato del Napoli, si è detto “commosso delle parole pronunciate da Carlo Ancellotti(nel post partita Inter/Napoli), fortemente intenzionato a fermare la sua squadra in caso del ripetersi di episodi di razzismo. Quasi come volesse far intendere di farsi giustizia da soli se chi è preposto a regolare la disputa dell'incontro non fa il suo compito”. Tralasciando per il momento i brutti e tristi fenomeni di razzismo diventati consuetudinari negli stadi italiani(e non solo negli stadi), il commuoversi dell'avvocato Grassani, cioè un uomo teoricamente al servizio del diritto, di fronte ad un'ipotesi di “di farsi giustizia da soli” fanno riflettere sulla reale consistenza etica di chi, nel mondo dello sport, occupa posti di responsabilità o di consulente di codesti posti. Sembra quasi essersi smarrito il concetto di autorità e di osservanza delle regole, e i protagonisti del mondo del calcio incespicano continuamente nel mare ignoto delle loro fragilità e delle loro arroganze. E quindi capita di ascoltare, nella conferenza stampa del post partita Juventus/Sampdoria, Allegri sostenere, a proposito dell'annoso argomento dei calci di rigori dati o non dati, che “le decisioni soggettive(cioè i calci di rigore)spettano all'arbitro”, facendo volutamente finta di ignorare come il fallo da rigore, come tutti i falli del gioco del calcio, sia normato da un regolamento dal carattere oggettivo.

Il senso etico e di responsabilità relativo alla deontologia professionale del giornalismo, avrebbe dovuto spingere qualche giornalista presente alla conferenza stampa a chiedere conto all'allenatore della Juventus della sua surreale dichiarazione. Ma niente è pervenuto. Il calcio, da tempo, è diventato territorio dove ciclicamente si mettono in scena tutte le contraddizioni e i malesseri del genere umano, ottenendo il risultato di aver fatto diventare questo splendido gioco lo specchio riflettente di ambizioni esistenziali, cambiamenti culturali di non poco conto e territorio di scontro di lotte politiche. Fa impressione un'intervista rilasciata il 29 dicembre scorso, cioè all'indomani della morte di un tifoso prima di Inter/Napoli, da Giovanni Malagò al quotidiano Libero. Al tifoso deceduto il presidente del Coni, e il giornalista preposto a fare domande, dedicano poche battute, e giusto il tempo di prendersela con la solita politica(“Serve l'intervento normativo e politico che ho sempre reclamato e non è stato ancora fatto”), in questi tempi di malessere sociale classico rigore a porta vuota.  Il seguito è stato un concentrarsi sul vero obiettivo dell'intervista, ossia il ministro dello sport Giancarlo Giorgetti e la nascita della struttura “Sport e Salute” voluta dal governo gialloverde.

Ammetto di aver sviluppato un interesse antropologico sull'attuale presidente del Coni, perché davvero rappresenta la summa di come si è sviluppata(o sottosviluppata?) la cultura comportamentale della classe dirigente italiana negli ultimi decenni. Quindi non mi sorprende che il nostro eroe, con l'aiuto interessato del giornalista di Libero, sia partito(o approfittato?) da un triste fatto di cronaca per poi renderci edotti, ancora una volta, sul fatto di essere stato scippato di 370 milioni da gestire, sul rischio di clientelismo nell'usare questi soldi da parte della politica e su come abbia zittito, in un colloquio, membri dell'attuale governo sui suoi presunti conflitti d'interesse(“Non sapevano cosa replicarmi”). La cosa più triste dell' intervista non è nemmeno il tentativo di un giornale, Libero, di approfittare di un inquieto dirigente sportivo per portare avanti la sua nota campagna politica contro l'attuale governo(legittima, per carità), e nemmeno il maldestro tentativo dell'inquieto dirigente sportivo di difendere il proprio potere attraverso un autorevole quotidiano, ma piuttosto di aver ridotto(spero involontariamente) mediaticamente una morte assurda al rango di una sineddoche. La vita di uomo, si spera, vale più di una figura retorica a carattere quantitativo. Nella galleria dei “nuovi mostri” creati dal calcio c'è sicuramente il fenomeno, ormai sempre più evidente, di aver trasformato un evento sportivo prima in merce ora in feticcio, conseguenza tipica(Marx docet) dell'economia di scambio dei prodotti mediato dal denaro, adibito a nascondere il vero problema insito in tale dinamica: lo sfruttamento.

La merce (il giocatore) diventata feticcio(oggetto di idolatria, che quindi va oltre il suo valore d'uso, ovvero giocare con un pallone), e quindi esiste non per le sue intrinseche qualità valevoli a rendere migliore l'esistenza, ma solo per la quantità di denaro che permette di guadagnare. Così si spiega il “fenomeno” Cristiano Ronaldo agl'occhi delle molteplici squadre che hanno investito su di lui nel corso della sua ormai lunga carriera. Squadre per nulla interessate alla storia dei valori per i quali erano nate, ma solo ad uno stemma societario trasformatosi in oggetto feticcio di brand e a giocatori/feticcio da “brandizzare” temporaneamente all'interno del suddetto stemma societario, ormai relegato al ruolo di marchio. Sono attimi di comicità involontaria quei giocatori che, dopo un gol segnato alla squadra dove per lungo tempo avevano offerto le loro gesta pedatorie, si rifiutano di esultare. Un segno di rispetto ipocrita(una vera presa in giro verso i tifosi) e un tradire lo spirito del gioco di ogni tempo, cioè quello di gioire per un risultato raggiunto. Il problema non è demonizzare il denaro, giusto mezzo di compromesso per regolare rapporti e meriti sociali, ma avergli consentito di vivere di vita propria, avergli permesso di diventare il fine ultimo di ogni cosa, piuttosto che un mezzo. Cosa assai grave che ciò sia accaduto anche nello sport, perché sta procurando un virus pericoloso: l'anomia. Lo strapotere economico della Juventus su tutta la Serie A ha creato un tale scollamento con tutti gli altri competitor, da non fargli nemmeno considerare la partita con la società bianconera un impegno da onorare. La certezza di perdere l'incontro, vista l'enorme disparità dei mezzi in campo, porta le squadre a non rischiare gambe e cuore.

Allora, sempre più spesso, si parla di squadre di Serie A che si “scansano” quando incontrano la Juve. Questa perdita d'interesse di competizione sportiva verso la società bianconera, presto potrebbe trasferirsi anche fra gli spettatori. E magari, un giorno, potrebbero non avere voglia di pagare un biglietto per assistere ad una partita che, in primo luogo, proprio la loro squadra del cuore non ha nessuna voglia di affrontare. Tutto ciò sta avvenendo perché alla Juventus è stato consentito, in spregio ad ogni regola di libera concorrenza e sotto il silenzio/assenso della Federcalcio, di diventare un formidabile moltiplicatore di denaro. Il monopolio esercitato da Andrea Agnelli ha fatto diventare il gioco della domanda e dell'offerta, nel calcio italiano, una pura finzione. Uno Stato, delle regole, dei controlli, la politica, esistono e sono state create nella storia degli uomini per impedire la prevaricazione. Pericolo sempre sospeso come una mannaia sulle vicende degli uomini. Forse Malagò di questo avrebbe dovuto preoccuparsi nei suoi colloqui con la politica. Forse avrebbe dovuto onorare l'etica dello sport e battersi per essa, invece di parlare ossessivamente di soldi sottratti al suo controllo. Insieme al presidente federale Gabriele Gravina, dovrebbero sedersi di fronte a Giorgetti per capire se qualcosa si può fare per impedire di consegnare definitivamente lo sport nelle mani del potere finanziario. Nuovo Golem moderno impazzito. Il libero mercato non è l'eliminazione sistematica della concorrenza, come ci ricorda una storica sentenza del 1915 della Corte Suprema americana sull'eccessivo monopolio assunto dalla Standard Oil nel mercato petrolifero, ma semplicemente un luogo di beni comuni dove le persone provano a prosperare, nel conto in banca e nelle relazioni, e vivono. Il calcio è nato tra uomini liberi e volenterosi di competere. Correre dietro un pallone e seguirne le vicende è stato sempre l'inizio del racconto di una nuova storia e uno dei rari momenti in cui, pur nelle differenze sociali e culturali, tutti ci si sentiva uniti in un unico destino dell'esistere. Ciò è stata la fortuna del calcio e spero proprio che ai nuovi “mostri” non sostituiscano definitivamente l'amore all'idolatria del feticcio.

 

Di Anthony Weatherill

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

 

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

tutte le notizie di