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Il calcio e lo schiavismo

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Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: "Qualcuno ha portato via al calcio la sua anima, e lo ha deciso in nome del prossimo derby della Mole trasmesso da Dazn, l’ennesima piattaforma a pagamento."
Anthony Weatherill

“Colto è l’uomo che non converte

                                                                   la cultura in professione”

Nicolas Gomez Davila

Nella tarda mattinata del 25 maggio del 1967 due giovani dall’aspetto anglosassone erano stati visti, smarriti e sconsolati, appoggiati su una Dyane6 parcheggiata sul lato di una strada anonima del Portogallo: si erano persi. Mancavano poche ore ad uno degli eventi più importanti di tutta la storia del calcio britannico, la finale della Coppa della Coppa dei Campioni tra Inter e Celtic, e due giocatori della squadra di Glasgow non stavano riuscendo a trovare la strada per andare a Lisbona, sede della finale. Questa è una delle tante leggende, vere o presunte, che circolano da anni attorno all’evento andato in scena sul prato dell’Estadio Nacional di Oreias, e che vide la vittoria di undici ragazzi tutti nati e cresciuti entro le trenta miglia dal Celtic Park(il luogo più cattolico di tutta la Scozia), la “casa” della squadra bianco verde. Potrebbe non stupire, quindi,  il motivo per cui i due giocatori si erano avventurati per le strade portoghesi alla vigilia di una partita così importante:  tornavano da un pellegrinaggio a Fatima, compiuto anche perché promesso ai loro genitori. Non si conosce quale fu la reazione del mitico Jock Stein, l’allenatore di quella squadra, nell’apprendere che si era rischiato di non avere due giocatori a disposizione per la finale, ma probabilmente dovette essere di comprensione. In fondo tutti componenti di quella squadra erano stati scelti, adolescenti, tra i vari campi e campetti degli oratori cattolici della più grande città di Scozia. E quando si è alle soglie di uno dei più importanti avvenimenti di una storia sportiva, non è mai consigliabile mettersi a rimproverare l’omaggio voluto rendere alla propria identità. Come detto, i “Lisbon Lions”(Leoni di Lisbona) piegarono la Grande Inter di Armando Picchi e Mario Corso e portarono la Coppa dei Campioni, per la prima volta nella storia, in terra britannica. Jock Stein ebbe a dire:”abbiamo vinto meritatamente, ce l’abbiamo fatta giocando a calcio. Puro, bello, fantasioso calcio”. Ormai il termine “purezza” sembra essere scomparso da ogni orizzonte lessicale, impropriamente utilizzato dall’inizio del novecento da teorie politiche e movimentiste di stampo razzista. Il timore della purezza è la mescolanza fra elementi estranei, in un processo di fusione che fa perdere il ricordo e il sapore originari degli elementi piegatesi alle esigenze delle mescolanze. Un tempo, forse ormai irrimediabilmente perduto, i roster delle squadre, specie nella composizione della formazione cosiddetta “titolare”, erano pressoché identici per almeno un lustro, e diversi di questi giocatori provenivano dal vivaio del club. I tifosi avevano il tempo di apprezzarne le doti umane e di crearne attorno racconti e leggende, facendo emergere un’empatia duratura nel tempo, presente addirittura nei racconti  dai tifosi  tramandati da generazione in generazione. Il giocatore prendeva atto dell’identità del club, dal valore della maglia indossata, e diventava, senza nemmeno rendersene conto appieno, un portatore sano dei valori del club a cui aveva affidato la sua arte pedatoria. Un luogo del mondo che sarebbe stato praticamente tutto l’arco temporale della sua attività agonistica. Esisteva certo il “mercato calciatori”, è sempre esistito, ma tutto avveniva con volumi e numeri infinitamente più ridotti rispetto a ciò a cui stiamo assistendo nella nostra contemporaneità. I giocatori erano di proprietà delle squadre, e in quanto di loro proprietà, gli organi gestionali dei club sapevano di averne la responsabilità di fronte agl’unici e veri, non mi stancherò mai di ripeterlo, padroni del calcio: i tifosi. La dirigenza di un club sapeva di non poter fare di tutto, e che la cessione di un giocatore importante era una chiara assunzione di responsabilità verso i tifosi. Per farla breve: in quel sistema era estremamente evidente “chi era che faceva cosa”. Anche se nessuno, specie la politica, ha mai avvertito il pericolo che si annidò  dal giorno in cui qualcuno ebbe a decidere che i giocatori si potevano comprare o vendere: fu l’inizio di un albero che ha continuato a crescere perennemente storto. Pur nell’inquietante presenza di un albero nato storto tutto fu, nel bene e nel male, estremamente chiaro fino al 1995, quando la Corte di Giustizia Europea decise di accogliere positivamente il ricorso del calciatore belga Jean Marc Bosman, che a scadenza di contratto chiedeva la possibilità di accasarsi al Dunkerque, senza che questa fosse costretta a riconoscere un corrispettivo in denaro al RFC Liegi, società dove aveva giocato sino a quel momento. In sostanza la Corte di Giustizia Europea aboliva il diritto di proprietà dei club sui giocatori, in quanto non potevano considerarsi merci ma forza lavoro professionale. E la forza lavoro ha un solo obbligo: rispettare un contratto, purché firmato liberamente. Per il calcio europeo fu la svolta copernicana, che diede la stura ad una normativa valida e vincolante per tutti i cittadini e club dell’Unione Europea. Entusiastici furono i commenti, inneggianti  alla fine del regime a connotazione schiavistica a cui i calciatori erano stati costretti a sottostare fino a quel momento. Ovviamente non mancarono i campioni intellettuali del politicamente corretto, spesso completamente a digiuno di calcio, felici di come la giustizia avesse finalmente rimesso al suo posto il “dio calcio”. Quasi tutti applaudirono alla “liberazione” dei calciatori, come se fossero appena stati aperti i cancelli degli immensi campi di cotone della Carolina del Sud. Qualcuno, molti di più di qualcuno, deve aver  sul serio pensato che l’epoca del mercato era definitivamente tramontata, e probabilmente lo deve aver pensato fino al giorno della comparsa dei contratti quinquennali e dei primi procuratori d’assalto. Quel giorno ci si è drammaticamente resi conto del passaggio dall’era dei giocatori di proprietà dei club, con responsabilità ed interessi chiari ed evidenti, a quella dei giocatori di proprietà di contratti di fatto in mano all’organizzazione dei procuratori. Il risultato fu quello di un mercato dei giocatori che non solo non era scomparso, ma aveva ripreso vigore in volume e in valore ben più di quanto fosse stato fino al momento dei giocatori di proprietà dei club. Nell’interesse dei procuratori, abili sbandieratori del primario interesse dei loro assistiti, i giocatori cominciano a cambiare club con la stessa frequenza con cui si cambiano gli autobus di una compagnia di una grande città. Tutto avviene velocemente e con intricate, e spesso nebulose, regole contrattuali da aver reso i giocatori sicuramente più ricchi, ma anche più legati alle decisioni altrui. Non dobbiamo prendere l’esempio dei Cristiano Ronaldo, questo tipo di giocatori hanno sempre avuto più privilegi e margini di libertà degli altri, ma tutti i giocatori non fuoriclasse(la stragrande maggioranza) diventati di proprietà proprio di quelle regole di mercato, specie quelle non scritte, fatte per non rispondere alle responsabilità di qualcuno. I giocatori guadagnano di più, ma sempre schiavi sono rimasti. A meno che qualcuno non voglia dire che la schiavitù scatta solo quando si guadagna poco, e viene a scomparire quando il conto in banca si gonfia. Sarebbe una posizione davvero insostenibile. La realtà della legge Bosman ha sancito, se davvero si vuole leggere con onestà la realtà fattuale, una situazione di compravendita di giocatori legati con dei contratti che ne connotano lo stato di cespite dei bilanci dei club. L’avvento della televisione a pagamento e dei social media, hanno portato, come nella più semplice eterogenesi dei fini, i calciatori ad essere considerati più merce di quando erano di proprietà dei club. Su You Tube impazzano video proponenti le gesta tecniche di giocatori pronti a vendersi al miglior offerente, e ormai diversi potenti procuratori sono diventati consulenti di mercato di società di varie leghe calcistiche europee. Ovviamente nessuno, tantomeno la Corte Europea di Giustizia, si preoccupa di questo lampante conflitto d’interessi. Ma il silenzio sconcertante è quello delle federazioni, sotto il quale cielo avvengono tali nefandezze. Triste è l’atteggiamento omissivo della politica, che accetta l’elargizione di un passaporto comunitario ad un sudamericano con un legame parentale nel vecchio continente risalente a qualche generazione addietro, e rifiuta il diritto di cittadinanza ad una bambina nata in Italia da genitori extracomunitari. Ai tifosi è stata sottratta l’empatia con i giocatori, ormai costretti dallo showbusiness a baciare il simbolo di ogni maglia con cui firmano un contratto(e poi parlano di schiavitù abolita), e sono stati “venduti” alle tv a pagamento che da tifosi li hanno fatti diventare massa clientelare, riducendoli a figuranti di uno spettacolo. “La società di massa non vuole cultura, ma svago”, scrisse Hanna Arendt, denunciando la verticale verso il basso  ormai presa da ogni nostro orizzonte esistenziale. Qualcuno ha portato via al calcio la sua anima, e lo ha deciso in nome del prossimo derby della Mole trasmesso da Dazn, l’ennesima piattaforma a pagamento. Non ci sarà più nessun Celtic cresciuto tra gli oratori di Glasgow, perché per i procuratori sarebbe quasi un insulto. Ci stanno derubando nottetempo casa per casa: e al diavolo la purezza.

Di Anthony Weatherill

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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