“Ritorneremo al punto di partenza
columnist
Il consiglio per un allenatore
per conoscerlo la prima volta”.
T.S. Eliot
Nella sala di un bar di un quartiere elegante di Londra, il signor Costa ha sempre sintonizzato un monitor su un canale televisivo greco. Segue le immagini con attenzione, e ogni tanto butta un occhio distratto su ciò che sta avvenendo nel suo locale, le cui attività cameriere gentili si preoccupano di portare avanti in modo diligente. Ogni volta che capito a Londra, trovo piacevole perdermi per un attimo di tempo nel mondo di Costa. Un mondo chiaro segno di emigrazione di successo e di perfetta integrazione anglosassone, ma che quel monitor costantemente connesso con la Grecia fa precipitare l’espressione del viso di Costa in uno stato di perenne malinconia. Qualcuno potrebbe sottolineare l’atavico senso di nostalgia greca, che ha spinto Omero a descrivere in un capolavoro letterario immortale l’ansia di un uomo, Ulisse, di tornare a casa, a costo di perdersi per un decennio nel Mediterraneo (chissà, poi, se fu solo il Mediterraneo) e facendo irritare non pochi dei dell’Olimpo. Ma chissà che emozione deve aver provato l’uomo più scaltro di ogni tempo, quando dopo vent’anni il suo amato cane Argo lo riconosce, ormai vecchio e camuffato da mendicante, sulla soglia della sua abitazione. Ci sono cose senza prezzo, e non sono solo i greci a provare il desiderio insopprimibile di voler, alla fine, tornare sempre a casa. Nella conferenza stampa del dopo partita di Champions Genk/Napoli, in tutta evidenza gli allenatori delle due squadre si erano messi d’accordo nel rispondere in inglese alle domande dei giornalisti presenti. Questo per rendere più spedito e rapido il lavoro del traduttore. Ma Felice Mazzù, allenatore di origini italiane del Genk, ogni qual volta cominciava a rispondere ad una domanda di un giornalista italiano, lo faceva in italiano. Come obbedendo ad un qualche richiamo ancestrale.
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Prontamente richiamato all’ordine dal solerte traduttore, Mazzù, scusandosi con un sorriso, riprendeva la risposta in inglese. Dietro quella voglia di parlare in italiano, c’è la storia di un uomo davvero incredibile e particolare. Una storia di calcio e di vita. Tutto parte da Salvatore, il padre del tecnico del Genk, uno che nel 1952, a soli quattordici anni, arriva in Belgio dalla Calabria non esattamente per farsi una vacanza, ma per scendere in miniera. Salvatore è uno di quei 50.000 lavoratori italiani figli del cosiddetto accordo “uomo-carbone”, firmato da Alcide De Gasperi e Achille Van Acker nel 1946. Un accordo con cui l’Italia concedeva lavoratori disposti a scendere in miniera, in cambio di combustibile. Nell’Italia del dopoguerra, specie nel meridione, c’era bisogno di soldi per vivere, soldi che la campagna non riusciva più a dare. Ed ecco arrivare in Belgio italiani affamati di lavoro, ma ignari di quel che li attendeva nelle miniere, con profondità situate a mille metri. “Se risalgo in superficie, laggiù non ci torno più”, dicevano molti non appena arrivavano giù la prima volta. In quelle profondità oscure dove oramai i belgi, avviati verso la strada di un rapido benessere, non volevano scendere più. Ma Salvatore era persona tenace (chiamò il figlio maschio Felice, come a voler comporre attraverso un nome un manifesto ideologico del suo inguaribile ottimismo) e incurante della fatica nociva, pericolosa e mal retribuita del lavoro in miniera. Lo immagino ad estrarre carbone, mentre nella sua testa ha il suo Felice che si laurea in educazione fisica, e sale in cattedra ad insegnare. Quanto orgoglio c’era in quei minatori italiani, quante loro storie meriterebbero di essere raccontate per far capire al mondo come gli italiani sono di certo genio, ma anche orgogliosa fatica. Ma prima di arrivare a quella cattedra, Felice trascorre una gioventù in cui la parola d’ordine era “privazione”. Non può andare a scuola in jeans, perché la sua famiglia non può permettersi quella spesa. E allora ripiega su degli economicissimi pantaloni di lino, che portano come conseguenza la derisione dei suoi compagni di scuola, in un contesto di un’ opinione pubblica belga incline al disprezzo verso gli italiani, a cui avevano affibbiato l’etichetta non proprio edificante di “macaronì”. Ma questo non solo non rende rabbioso il carattere del futuro allenatore del Genk, anzi lo fortifica nell’umiltà, ma lo spinge a non mettere freno a qualsiasi sogno compaia nel suo orizzonte esistenziale. Felice non dimentica nemmeno per un secondo come quei tanto bistrattati pantaloni di lino abbiano un costo, che suo padre sta pagando furiosamente nel ventre della terra di Charleroi. Studiare è un obbligo morale, perché lo deve a quella fatica bestiale di Salvatore di cui anche l’oscurità di una miniera ha rispetto, ma il desiderio di avere anche a che fare con il mondo del pallone è forte. Il calcio, per il figlio di un italiano emigrato in terra ostile, è la visione di un riscatto della comunità mineraria italiana belga, che mette qualche fiasco di vino sul tavolo di legno e segue con entusiasmo amorevole una nazionale italiana di calcio rispettata in tutti i campi del mondo e le vittorie automobilistiche della Ferrari(il debito che l’Italia ha con Enzo Ferrari non sarà mai estinguibile). E’ l’orgoglio di essere rimasti italiani fino al midollo, che ha fatto decidere molti di loro di non prendere la nazionalità belga e di conservarsi per sempre la carta d’identità italiana.
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Probabilmente non molti sanno l’importanza di questi uomini per la rinascita italiana del dopoguerra. Come ammesso dallo stesso De Gasperi, le “rimesse” da questi inviate alle loro famiglie rimaste in Italia, furono fondamentali quasi quanto il “Piano Marshall”, perché ebbero il pregio di essere valuta immediata da immettere nel panoramico economico devastato di un Paese uscito stremato dalla Seconda Guerra Mondiale. Uomini a cui, prima della partenza, erano state fatte promesse non mantenute. L’obbligo di lavorare almeno cinque anni in miniera, altrimenti c’era la prigione e poi l’espulsione dal Belgio, è una vergogna che rimarrà per sempre in quella oggi definita “Comunità Europea”. Felice Mazzù scopre subito di non avere molto talento come calciatore, e quindi a ventisei anni si scopre con il sogno di diventare allenatore. Parte dal basso, ma figuriamoci se per il figlio di un minatore ciò rappresenti un problema, e si fa notare subito per una caratteristica: le squadre da lui allenate spesso vincono. Con una di queste squadre, il White Star, elimina in Coppa del Belgio addirittura tre squadre della massima serie belga, che gli fa giungere un’offerta dallo Standard di Liegi, una delle squadre più importanti del Paese. Ma lui,pensate un po’, rifiuta l’offerta perché ritiene come al White Star il suo lavoro non sia finito: “nove persone su dieci – dichiara – avrebbero accettato, io sono l’eccezione”(eh, i valori dei figli dei minatori. Non c’è falsa retorica sul professionismo a poterli minare). Finito il lavoro al White Star, Mazzù approda al Charleroi, guidato fino ad una storica qualificazione in Europa League, esprimendo un gioco brioso e valorizzando numerosi giovani talenti. E’ il periodo in cui Salvatore e sua moglie vengono riempiti di complimenti per le vie di Charleroi, dove tutti fanno la corsa per offrirgli qualcosa al bar e dove al mercato gli è quasi impossibile pagare. Non male per un uomo che, non appena giunto in Belgio nel 1952, gli era stato riservato come alloggio un baracca senza corrente e servizi igienici. Quando lascia Charleroi per il Genk e la sua prima Champions League, saluta i tifosi con una lunga lettera conclusa con un “vi amo”. Ringrazia tutto il club e la città, e perfino le sue origini da minatore: “Se guardo indietro vedo il carbone, la mia storia”. Non ci sono davvero parole sufficientemente buone per descrivere un uomo così. “Ho una sola missione – dice Felice in un attimo di confidenza -, ed è quella di rendere fiero mio padre”. E allora, con la collaborazione del giornalista Jean Derycke, scrive un libro con un titolo che è una dichiarazione d’amore filiale e per il suo Paese d’origine: "Papà, ti prometto che un giorno allenerò in Serie A”. Duecento pagine di cuore, memoria, sogni e visioni. Ogni club calcistico italiano(magari il Toro, quando il ciclo Mazzarri sarà concluso), per come la vedo io, dovrebbe essere onorato di provare a far sedere sulla sua panchina il figlio del minatore Salvatore. Chi lo farà, oltre ad ingaggiare un grande allenatore, avrà indietro le visioni di un uomo vero, di un uomo di cui sia il calcio sia la società italiana avrebbero urgente bisogno. Il club italiano che realizzerà la promessa fatta da Felice a suo padre, avrà il merito di riportare a casa un figlio di quell’Italia che ha lottato per ristabilirne la dignità e l’onore. Già, ritornare a casa… forse un giorno tornerò in quel bar elegante di Fincheley Road, e forse troverò l’attimo giusto per mettere una mano sulla spalla del signor Costa, per dirgli: “hai già dato tutta la malinconia che potevi dare all’Inghilterra. Spegni quel monitor. Torna a casa. Torna in Grecia”. Perché tornare a casa, alla fine, è veramente l’unica cosa che conta. Se non ci credete, provate a chiedere ad Ulisse.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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