“il giornalista è sempre uno che dopo sapeva tutto prima”.
columnist
Il doping e gli eterni secondi
Karl Kraus
Javier Tebas, capo della Liga spagnola, non molto tempo fa era stato molto chiaro: “i finanziamenti che Paris Saint Germain (PSG) e Manchester City ricevono sotto forma di aiuti di Stato stravolgono le competizioni europee e creano una spirale inflazionistica che danneggia irreparabilmente l’industria del calcio”. Tebas era stato ancora più duro sulla squadra parigina, arrivando a paventare una sua espulsione dalle competizioni europee: “hanno barato economicamente e le squadre eliminate da loro sono state vittime delle loro trappole”. Quest’ultima dichiarazione mette involontariamente in luce, a mio modesto parere, un aspetto del problema doping, finanziario o fisico che sia, raramente sottolineato quando si parla di alterazioni artificiose di risultati: il dramma di chi arriva a ridosso a coloro che hanno usufruito di trucchi contabili o chimici per vincere ad ogni costo.
Quando il 24 agosto del 2012 l’USADA (United States Anti-Doping Agency) decise di squalificare a vita Lance Armstrong, sancendo anche la revoca dei numerosi risultati sportivi ottenuti in carriera dal ciclista americano, l’attenzione dei media e della pubblica opinione fu soprattutto concentrata alla corsa alla censura e all’invettiva contro Armstrong, e si raggiunsero, in alcuni casi, delle situazioni di vere e proprie lapidazioni di colui che aveva “rubato” alla storia dello sport del ciclismo ben sette Tour de France. Le stesse persone accalcatesi ad acclamare sulle strade del Tour il baro americano fino ad un minuto prima, gli stessi giornalisti che per anni avevano fatto la fila davanti a lui per avere financo un suo piccolo vagito da pubblicare, gli stessi politici (vero Nicholas Sarkozy?) onnipresenti nel mostrare amicizia al campione di fama mondiale, si erano appalesate improvvisamente così vogliose di lanciare “la prima pietra” (tremo all’idea di un Gesù di Nazareth, improvvisamente “ritornato”, invitare le persone senza peccato di oggi a scagliare la prima pietra) da dimenticare tutte le contumelie da loro stessi riservate a David Walsh, il giornalista irlandese che a partire dal 1999 aveva cominciato la sua battaglia ostinata per denunciare le evidenti ombre sulla supposta bella favola di Lance Armstrong. Battaglia portata avanti insieme al suo giornale, il “Sunday Times” (fortunatamente esistono ancora giornali e giornalisti consci del loro ruolo), che ha sostenuto le ingenti spesi legali dovute per le numerose denunce per diffamazione a cui per anni Walsh ha dovuto sottostare. Nell’orgia da “sic transit gloria mundi” scatenata contro Armstrong, quasi tutti hanno dimenticato i nomi delle vere vittime dell’imbroglio messo in scena dal “sistema” US Postal: i corridori arrivati secondi in quei sette Tour vinti da Armstrong.
Ad Alex Zulle, Jan Ulrich, Josepa Beloki, Andreas Kloden, Ivan Basso nessun tipo di giustizia potrà davvero dare un vero risarcimento. Perché non c’è risarcimento possibile per le emozioni mancate di una vittoria mancata. Non esiste qualcosa a lenire il dolore di a chi, dopo anni, è stato detto che avrebbero potuto vincere quel Tour se qualcuno non avesse giocato sporco. Perché, per i secondi dell’epoca Armstrong, non sarà più possibile provare quelle emozioni uniche date dal salire sul podio più alto della premiazione ai Campi Elisi. Quella sensazione da grande obiettivo raggiunto, per sé e per la propria nazione, che da senso ad una vita e rende accettabile ogni tipo di dolore sopportato. È quasi banale convenire che nessun furto, di qualsiasi genere sia, potrà mai avere un adeguato risarcimento. E quando, in risposta alle possibili sanzioni dell’Uefa (esclusione dalle coppe) per violazione del FairPlay finanziario, il presidente del Paris Saint Germain, Nasser Al-Khelaifi, ha dichiarato in modo sprezzante che “anche in caso di sanzioni nessuno può obbligare il club a vendere i suoi giocatori migliori”, si è capito come un guado, nel sentire comune, è stato ormai definitivamente attraversato. Quando non solo non si sente il peso etico della sanzione ma addirittura la si sfida, si capisce come ogni genere di autorità o controllo sia definitivamente saltato. La gente non è più avvertita dai pericoli corsi, sempre di più, dai beni comuni, e la notizia data qualche tempo fa dall’autorevole settimanale tedesco “Der Spiegel”, secondo cui il Bayern di Monaco avrebbe chiesto alcuni pareri legali per sapere se è possibile una sua uscita dalla Bundesliga per aderire alla nascita di una SuperLega europea, sembra non aver procurato nessuna reazione significativa. Nemmeno le società ormai da anni destinate a contendersi a rotazione solo il secondo posto nella “Bundes” hanno dato segni di contrarietà alle manovre del club di Monaco di Baviera. E se anche gli eterni secondi cominciano ad assumere un atteggiamento rassegnato, diventa sempre più difficile parlare di etica nello sport in ogni ambito.
Fa sensazione l’editoriale di “TuttoSport”, a firma di Marcel Vulpis, pubblicato giorni fa in risposta alle dichiarazioni di Aurelio De Laurentis (“è facile vincere con 200 milioni di euro di debiti”) in cui, ancora una volta, il presidente partenopeo provava a spiegare l’impossibilità di competere con un fatturato triplo rispetto a quello della società campana. Vulpis, nel maldestro tentativo di rispondere a De Laurentis e facendo precipitare “TuttoSport” al rango di succursale dell’ufficio stampa della società bianconera, ha cominciato a sciorinare tutta una serie di dati economici, in tutta onestà assolutamente veri, sulle differenze delle voci di bilancio tra Juventus e Napoli, a giustificazione del diritto della Juventus di ricorrere allo strumento del debito. Anche Urbano Cairo, intervenendo a Radio24, ha giudicato corretto il ricorso al debito da parte della società di Andrea Agnelli perché “175 milioni di richiesta di debito, per un’azienda che fattura 500/600 milioni può essere normale. Avere debiti è giusto perché magari finanzi la crescita”. Non ho nulla contro Urbano Cairo, ma quando fa lo smemorato, quando si relega da solo alla stregua di un semplice passante, ritorna improvvisamente alla genesi della sua attività imprenditoriale, che come è noto non è quella di editore ma di venditore di spazi pubblicitari. Nell’ansia e nella necessità di vendere un prodotto, il pubblicitario finge di ignorare le criticità del prodotto stesso. Egregi Vulpis e Cairo, pur rispettando le vostre analisi, trovo non accettabile il vostro esservi dimenticati il perché e il come della vetta 500/600 milioni di fatturato raggiunti dalla Juventus. Quando si fa un analisi di un fatto, e qui più che a Cairo mi rivolgo al giornalista Vulpis, non si possono dimenticare tutti gli aspetti di cui quel fatto stesso è composto. Aveva il dovere di spiegare, Vulpis o TuttoSport in un altro articolo di commento ai dati enunciati, in che modo, nel corso degli anni, questo fatturato raggiunto dalla Juve, perno essenziale a garanzia del debito, sia stato realizzato. I favoritismi alla società bianconera, legali per carità, da parte delle istituzioni bancarie, sportive e politiche(comune di Torino) sono stati più che evidenti e hanno creato una situazione di pesante squilibrio finanziario nel calcio italiano. E quando un eterno secondo, De Laurentis, prova a porre il problema non lo si può zittire sciorinando dei numeri che, in quanto numeri, avrebbero avuto bisogno di una necessaria interpretazione più che un editoriale dal sapore di un osanna all’operato della Juve e di reprimenda alle capacità imprenditoriali del presidente del Napoli. E’ apparso evidente l’aver utilizzato quei numeri di fatturato come una clava sulla schiena del presidente napoletano, perché impari e stia al suo posto. Ognuno giunga alle conclusioni che creda, ma comprendo come tutti non possano essere David Walsh e il Sunday Times. Fra molti anni, a scorrere l’albo d’oro del Tour de France, si potrà notare come dal 1999 al 2005 il titolo del vincitore non sia stato attributo. E così i secondi avranno subito una seconda beffa, quella di essere giunti a ridosso del nulla e di aver partecipato ad una storia ufficialmente mai avvenuta, come se il Tour in quegli anni fosse andato inaspettatamente in vacanza. Nell’attesa della dura sanzione al Psg auspicata da Tebas (non sperateci troppo), c’è da augurarsi che qualcuno difenda la nostra storia, la storia delle nostre umane fatiche e delle nostre umane speranze, e che racconti la storia di come i secondi vissero nonostante tutto. Ha scritto GK Chesterton: “il giornalismo consiste principalmente nel dire “Lord Jones è morto” a persone che non hanno mai saputo che Lord Jones fosse vivo”. Che grande e necessaria responsabilità, se ci pensate.
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. È il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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