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columnist
“La retorica non è il male. Usarla male è il male”
Anonimo
Qualche giorno or sono la Fgci ha festeggiato i suoi 120 anni di storia andando a trovare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale: “la casa degli italiani”, ha retoricamente affermato Roberto Fabbricini davanti al Presidente Mattarella. “per noi – ha continuato il commissario della Federcalcio – c’è grande emozione e gratitudine. L’Italia è impegnata a risalire la scala dei valori internazionali. In futuro speriamo di rivivere altre notti magiche, insieme al nostro Presidente della Repubblica”. Nella retorica, in ogni retorica, c’è sempre una piccola porzione di enfatizzazione distonica con la realtà o, per meglio dire, si ha sempre la sensazione che ci sia un po’ di ipocrisia e un po’ di balle. E Fabbricini, in questi ultimi suoi giorni da commissario della Federcalcio, non ha fatto nulla per mitigare questa insana voglia di spalmare melassa inutile nel luogo più importante della Repubblica italiana. Il padrone, ovviamente, non poteva essere da meno del suo fedele scudiero, a cui ha lasciato il suo posto persino alla presidenza del Circolo Aniene(a sancire il loro status di fratelli siamesi), posto principe di tutti gli inciuci o tentativi di inciuci della capitale, e quindi si è lanciato in altra retorica a costo zero. “Oggi è una giornata molto bella e importante – ha detto Giovanni Malagò -, che celebra questa lunga storia d’amore e passione del Paese verso lo sport più popolare, e giù altre parole che pare abbiano avuto il potere di fare afflosciare i pennacchi dei Corazzieri, avvezzi dal 1871 ad assistere ad ogni tipo di spettacolo andato in scena al Quirinale.
Cicerone, nel suo De Oratore, ricorda al lettore come nella buona retorica sia molto importante costruire sempre un impasto indissolubile tra res e verba, tra argomenti e forme espressive; i fatti non sono più importanti delle parole e le parole non lo sono più dei fatti. Appare chiaro come i due gemelli siamesi, dando al solito molta più importanza alle parole che ai fatti, non abbiano mai avuto molta dimestichezza con il De Oratore ciceroniano. E qualche istante dopo, visto può sempre capitare che qualcuno dichiari improvvisamente la nudità del re, al malcapitato duo è arrivato quello che qualcuno chiamerebbe eufemisticamente una doccia gelata e qualcun altro, molto più prosaicamente, la rubricherebbe invece come il classico calcio sui denti. Il presidente dell’Uefa Aleksander Ceferin, evidentemente poco incline ai sollazzi del Circolo Aniene, ha ricordato come un festeggiamento(“La più bella storia d’amore che dura da 120 anni”), seppur importante e sacrosanto, non può far dimenticare il peso delle responsabilità ai protagonisti dei reiterati fallimenti del calcio italiano. “Conosco l’enorme delusione che avete provato per la mancata qualificazione ai mondiali – ha detto Ceferin, con la collaudata decisione e franchezza tipicamente slava e con grande padronanza dell’impasto indissolubile tra res e verba -, un vero dramma nazionale. Affinché questo incidente resti solo un episodio e non diventi un segno di declino irreversibile, dovete prendere subito decisioni serie. Serve investire in stadi moderni, perché in Italia sta sfuggendo il cambiamento decisivo”.
Parole dense di verità, queste di Ceferin, e soprattutto caratterizzate da una consapevolezza richiesta dall’incarico ricoperto. Non ha dato nemmeno per un attimo l’impressione, il presidente dell’Uefa, di trovarsi in un salottino privato dell’Aniene o nella “Terrazza” di Ettore Scola a dar sfoggio del nulla cosmico. Questo mondo ormai sempre più scoordinato, di cui sono invaghiti e si trovano nel massimo agio i gemelli siamesi, è “ormai fuori dai cardini –ebbe a scrivere in un libro postumo il grande sociologo Ulrick Beck -, e lo vaghiamosenza meta, confusi, discutendo pro o contro questo o quello”. Dalle pagine di Beck si evince la perdita di ogni valore a cui abbiamo ridotto quasi ogni nostra azione, auto riducendoci a mere caricature di spettacoli verbali uguali a se stessi continuamente messi in scena. La retorica e il declino delle parole sembrano sancire sempre più quello che, in un recente e splendido libro, Raffaele La Capria chiama “il fallimento della consapevolezza, cioè alla perdita, alla mancanza di una cultura che permei di sé tutta la nostra vita e ci faccia sentire legati alle generazioni che ci hanno preceduti”. Non c’è niente, secondo La Capria, che aiuti a tramutare le cose in saggezza, niente che ci insegni qualcosa. Tutto è ridotto a pura “maniera”, che invece di dare testimonianza alla tragedia fa continuo gioco su se stessa. La Capria, da scrittore, parla soprattutto dello stato della cultura, ma si capisce che il riferimento diretto è alla classe dirigente definita stupida e meschina, assente di ogni inquietudine che ci regala come conseguenza l’assenza di visione. Lo scrittore napoletano si chiede se si riuscirà a dare risposta “al bisogno di darci delle regole” così che “cominceremo a ricostruire e a ripulire. C’è ancora qualche possibilità che una simile devastazione non sia irreversibile”.
Questa possibilità prefigurata da uno dei più significativi scrittori italiani contemporanei, regala una ventata di ottimismo che ci fa aggrappare alla speranza di sempre del “non tutto è perduto”, e per un attimo fa sentire riconciliati con il mondo. Si fa un gran bel respiro, si fa entrare aria pulita nei polmoni, e l’idea che una nuova e giovane classe dirigente dello sport italiano possa pian piano farsi largo diventa un’ipotesi possibile. Ma se un giovane del 1975, Andrea Agnelli, si rammarica di dover dare alle nazionali 60 giorni l’anno i suoi giocatori migliori, inerpicandosi in un sillogismo evidentemente falso immaginando il paradosso di “un’azienda privata che presta i suoi migliori dipendenti ogni anno per una causa comune”, succede che dopo la lettura della parole di La Capria si torni, come il gambero, a fare dei passi indietro verso il nulla della simpatica coppia del circolo Aniene. Nessuno che ricordi al presidente della Juventus come alla concessione di qualsiasi diritto d’impresa debbano discendere, oltre al giusto pagamento delle tasse, anche alcuni oneri imprescindibili verso la comunità. Questo perché un’azienda, una qualsiasi azienda, non è dotata di una patente “corsa”, che gli consente di esercitare a proprio piacimento atti di pirateria con il consenso del re o della regina di turno. Un’azienda vive e prospera grazie e soprattutto al territorio in cui essa si è costituita. Nonostante il rampollo di casa Agnelli faccia di tutto per far prevalere il concetto ordoliberista, e mondialista, nel mondo del calcio, si deve ricordare che lo sport è un bene comune, ovvero è un patrimonio di una comunità.
Quindi non è solo un obbligo quello di dare giocatori alle nazionali, ma è un dovere e un privilegio. Se io Stato ti concedo di possedere una squadra di calcio, non puoi minimamente pensare di poter fare di quella squadra quello che vuoi. Lo sport è un patrimonio culturale ed etico di un Paese, e se un Paese ti chiede per un numero limitato di tempo i tuoi giocatori si dovrebbe usare di obbedir tacendo. Ma Agnelli si comporta sempre più come il “padrone delle ferriere”, come un capo assoluto del calcio italiano, assumendo su di sé, e solo su di sé, il concetto di giusto e sbagliato. Un vero capo dei pirati, poco incline al rispetto delle regole e delle convenzioni comuni, che incute impotenza persino a Gabriele Gravina, unico candidato alle ormai prossime elezioni del presidente della Fgci, che in un’intervista al Messaggero, sul problema dei 36 scudetti mostrati allo Stadium contro i 34 sanciti dal processo di Calciopoli, ha candidamente dichiarato:”i bianconeri in Italia sono più avanti rispetto agl’altri. Non mi piace fermarmi a contare il numero degli scudetti. La federazione ha diffidato la Juventus, ma oltre non possiamo andare. Se loro continuano a dirlo, cosa facciamo? Ognuno rimane della propria idea”.
Questo, signori, è il prossimo presidente federale; un uomo dichiaratisi estraneo al far rispettare una sentenza di un proprio organo giudicante. Un uomo, un dirigente sportivo, il quale, in modo manifesto, si dichiara impotente rispetto alle regole e alla decenza. E lo fa con la tipica arroganza di chi si sente già con il sedere poggiato su un posto importante e con il potere in mano da esso derivante. La classe dirigente italiana(o la “classe digerente” come la chiama La Capria) si sente tutta invitata a buon diritto nella “terrazza” immaginaria di Ettore Scola, dove auspica la retorica delle parole soverchiante sulla retorica dei fatti. Nessuno a ricordargli che senza delle regole, gli strumenti, a cui categoria appartiene la Federcalcio, rimangono senza contenuti morali. E se gli uomini non si preoccuperanno di ridare a questi dignità morale, potrebbe finire, come paventato da Benedetto XVI, che “gli strumenti prenderanno autonomia morale”. Abbiamo bisogno, noi tifosi, di ritrovare una consapevolezza. Il calcio ha bisogno di dirigenti che interpretino tale consapevolezza. Il resto verrà da sé, compresa la rinascita del calcio italiano.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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