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Il futuro e il poi

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Loquor / Torna l'apprezzatissima rubrica del nostro Anthony Weatherill
Anthony Weatherill

“Ieri è passato. Domani deve ancora venire.

                                          Abbiamo solo oggi. Iniziamo”.

Madre Teresa

L’1 luglio del 2017, sul sito ufficiale della Juventus, viene ricordata come una data fondamentale della storia della Juventus: quella della presentazione del nuovo logo del club bianconero. “Da oggi il Club(da notare l’enfasi del maiuscolo)cambia ufficialmente pelle, proiettandosi nel futuro con una nuova identità visiva, simbolo di un brand e di uno stile totalmente rinnovati”, ha continuato l’entusiasta autore del peana in puro stile marketing. Verrebbe da rispondere, gelando qualche entusiasmo, che quel numero 35 in campo tricolore presente all’ingresso principale dell’Allianz Stadium, rappresenta, più che una proiezione futuristica, un vizio passato e presente duro a morire(Forse un giorno Giovanni Malagò riuscirà a dire qualcosa di concreto sulla necessità del rispetto delle regole, che include anche il rispetto delle sentenze).

“Il fraudolento sa guadagnarsi per tempo la fiducia nelle piccole cose, per tradire poi con grande profitto”, scriveva Tito Livio, forse il più importante storico romano. L’avverbio di tempo “poi”, così abilmente usato dallo storico romano, prefigura un’inquietante futuro per chi crede nella narrazione di un divenire che, solo per il fatto di essere sconosciuto, è di sicuro foriero di buone notizie e splendidi cambiamenti. Sono in molti a credere a questa facile semplificazione del futuro, molti ad esserne facilmente sedotti: e di ciò sono a conoscenza tutti gli uffici marketing del mondo. L’imbroglione(ma sì, chiamiamolo con il linguaggio della cultura popolare. Quella cultura non adusa a parole straniere, il cui significato sfugge ai più, per definire qualcosa) parla sempre di un “poi”, mentre sta tentando di convincerti su un titolo azionario Lehman Brothers o un bond della Parmalat di Tanzi come ottime assicurazioni per la tranquillità del tuo futuro. “Guardiamo al futuro-continua il peana marketing della pagina del sito ufficiale della Juventus- pur non dimenticando l’eleganza della tradizione e l’importanza della storia”, facendo precipitare il malcapitato lettore della pagina juventina in una narrazione così credibile da sembrare vera. “Posso credere a tutto, purchè sia sufficientemente incredibile”, recita il fulminante aforisma di Oscar Wilde, riesumato dalla mia mente quando, qualche tempo fa, mettendo a fuoco il nuovo logo della Juventus, ho scoperto quanto possano avere una faccia da “carta vetrata” i futuristi di ogni tempo: il toro rampante d’oro, simbolo della città di Torino, era sparito parimenti alla corona comitale a nove perle. Più che uno sguardo rivolto al futuro, il nuovo logo mi è apparso per quello che effettivamente è: una dichiarazione di guerra al concetto d’identità. Non starò qui a ricordare la leggenda del toro che salvò Torino da un drago feroce o del significato della corona come simbolo di un confine tra terreno e divino, e tra uomini e cielo; perché è facile comprendere come il simbolo del capoluogo piemontese ricordi due fra gli stati d’animo più importanti alberganti nell’animo umano: forza e speranza. Voglio invece sottolineare il significato della comunicazione di questo orribile logo bianconero, un significato frutto di un lavoro intellettuale di sottrazione di un’identità, barattata ad un misero universalismo mercantile, bramoso di nuovi mercati da conquistare. La Juventus non vuole più giocare a Torino, bensì nel “meta spazio” del mercato globale. Prassi normale per una famiglia, quella degli Agnelli, abituata a trasferire il cuore della Fiat(acronimo di Fabbrica Italiana Automobili Torino) a Detroit, e tutto sempre in nome di un futuro più radioso. E’  incomprensibile come i tifosi bianconeri abbiano potuto accettare una rimozione così importante di un pezzo della loro memoria. E’ davvero così sconfortante come sia diventata la vittoria l’unica cosa che conta.

“Lo stadio e lo stemma non si toccano: rispetto per la tradizione”,è stato lo striscione esposto nel gennaio 2017 , nel corso della partita con la Real Sociedad, dai tifosi del Real Madrid contrari alla rimozione della croce dal logo della loro squadra del cuore. Rimozione voluta dai dirigenti delle Merengues, e sancita attraverso la sigla su un contratto, per poter commercializzare tutti i prodotti del brand della Casa Blanca nei territori dei paese arabi. Ma al presidente Real, Florentino Perez, non sembra aver mostrato molto interesse per questa accorata protesta dei tifosi,  visto che ci sono nuovi “cuori da conquistare tra i potenziali tifosi degli Emirati Arabi Uniti”. Questa filosofia del “poi” ormai condiziona qualsiasi cosa, e zittisce qualsiasi forma di opposizione.  Tutta questa rimozione di cultura e storia è quasi paradossale per un club nato grazie alla passione di professori e studenti universitari. Ma i paradossi continuano se ci si trasferiamo in Gran Bretagna, dove il calcio è sempre stata la cornice del riscatto della working class e del ricovero protetto dei giovani più disagiati. L’Arsenal viene fondato da un gruppo di operai della Royal Arsenal, che faticherebbero oggi a capire la struttura di un posto come l’Emirates Stadium, luogo del calcio completamente asimmetrico a tutta la storia dell’ ex club di Highbury. Sarebbe stupita in negativo se oggi Anne Connell, colei che diede il via alla storia del Manchester City, realizzasse che dal logo del club mancuniano è stato rimosso il motto in latino(Superbia in Proelia). Ma i seguaci del “poi” la convincerebbero che tutto è stato fatto per il futuro del City, controllato e foraggiato dalla National Bank of Abu Dhabi. Banca, partner anche in molti affari del brand Real Madrid, che certamente non poteva accettare croci e frasi in latino. “In fondo sono piccole cose, piccole cambiamenti”, avrebbero detto ad una sempre più stupita Anne Connell, invitandola a non essere nostalgica e ad aprire il suo cuore al futuro.

Siamo diventati tutti ostaggio di piccoli Paesi(vedi Qatar) che, dopo aver scavato con la paletta nel deserto e aver scoperto improvvisamente di avere un sottosuolo da nababbi, provano ad azzerare la memoria del calcio europeo a suon di dollari. Ma la memoria dei tifosi non è labile come quella della banconota, e sarebbe difficile far dimenticare ad un tifoso del Celtic di Glasgow che l’intenzione di Fratello Walfrid, il fondatore della loro squadra, era stata quella di far giocare una squadra di calcio per raccogliere fondi per i bambini poveri cattolici della città scozzese. In seguito la rivalità con i Rangers, l’altra squadra del capoluogo scozzese, assunse i contorni di una rivalità spirituale e culturale sopravvissuta fino ai nostri giorni. Una rivalità accesa da sempre c’è tra United e Liverpool, soprattutto a causa del Manchester Ship Canal, causa del devastante declino economico per la città del Merseyside a favore della città mancuniana. I portuali contro gli operai delle industrie manifatturiere, l’orgoglio di avere i Beatles contro il rimarcare che loro, i mancuniani, avrebbero sempre preferito i Rolling Stones. Se si attraversa la Manica e si raggiunge Parigi, parlando di calcio si viene a conoscenza de “La Classique”, la denominazione con cui viene ricordata l’accesa rivalità tra il Paris Saint Germain e il Marsiglia. Parigi, simbolo della “Grandeur” francese e di tanta cultura europea, e Marsiglia, simbolo della Francia meridionale affacciata sul mediterraneo dei mercanti e delle ondate migratorie. Il calcio, per queste due città, è stato semplicemente la continuazione di due modi diversi di vedere la vita. Parlo al passato perché, con l’avvento dei qatarini sul ponte di comando del club parigino, è stato definitivamente stravolto il concetto della Classique. I soldi della Qatar Investiment hanno dopato finanziariamente la storia del calcio francese, compiendo un autentico genocidio della sua cultura. Qualcuno potrebbe darmi del nostalgico(e sicuramente qualcuno lo farà), ma a questo qualcuno vorrei ricordare che il calcio non ha passato e futuro, ma ha solo un presente storico, vera essenza dell’essere tifoso. Chi nel calcio parla ossessivamente di futuro, lo fa solo per distogliere l’attenzione sulla rapina che sta operando del presente. I tifosi del Toro ciò lo possono capire, perché sono stati protagonisti di un’eroica difesa da speculazioni del suolo del Filadelfia, il loro eterno presente storico. Hanno provato ad irretirli con discorsi vaghi sul futuro, ma loro sono rimasti vigili e in trincea finchè il loro stadio non è rinato dalle sue ceneri, e non è tornato a tingersi di granata e di vita. La panchina dove  degli studenti del liceo “Massimo D’Azeglio” ebbero l’idea di fondare la Juventus, oggi è conservata nel museo del club bianconero.  Un cimelio di un tempo ormai troppo remoto e che ha perso il suo valore d’uso, a monito di una iniziativa di giovani amanti dello sport inglese oggi diventata un brand senza più città e senza più storia. Probabilmente è questa la vera differenza tra Juve e Toro. Il nuovo tifoso d’oriente, semmai si trovasse a scegliere tra le due opzioni, lo tenga ben presente.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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