La morte di Ginetto Trabaldo figura storica del tifo granata e fondatore del primo gruppo di tifo organizzato in Italia, poi diventato Fedelissimi Granata, chiude malinconicamente un'epoca decisamente più romantica del calcio nostrano, un'epoca dove il tifo era davvero una fede e dove ci si spendeva davvero "fisicamente" per la propria squadra del cuore dato che le immagini in tv erano poche e per vedere i propri beniamini bisognava necessariamente andare allo stadio in casa e in trasferta. Un calcio purtroppo che non esiste più da tanto tempo, più o meno dall'avvento delle pay tv, e che anche sul lato del tifo ha perso progressivamente passione e partecipazione. Con il nobile (e correttissimo, sia chiaro) intento di estirpare la violenza dagli stadi, chi gestisce il mondo del calcio ha trasformato l'evento calcistico in uno spettacolo più assimilabile ad uno show di intrattenimento leggero che ad una liturgia mistica e passionale con i suoi riti e le sue travolgenti emozioni. Inutile in questa sede dibattere sulle responsabilità di chi ha voluto tutto questo e di chi continuerà ad "uccidere" il calcio in nome del puro business, però non possiamo non rimarcare come il Torino stia perdendo in maniera imbarazzantemente colpevole tutti quei valori che spinsero proprio persone come Trabaldo a dedicare buona parte della propria esistenza a supportare un'idea che andava ben al di là del mero aspetto sportivo. Spesso confondiamo i risultati sul campo come i principali indicatori della bontà o meno della gestione di un club. L'equazione vincere uguale fare bene semplifica eccessivamente il giudizio sulle società calcistiche e non tiene conto di tutto ciò che gli anglosassoni definiscono come "intangibles": non tutto è quantificabile in numeri e spesso alcuni aspetti qualitativi sono di difficile misurazione, ma di fondamentale importanza nella vita di un club.


Il Granata della Porta Accanto
Direi bene
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Il dibattito sul giudizio che si dà al ventennio di Cairo si basa certo sui numeri per esprimere un voto negativo della sua gestione: numeri che da un lato indicano un andamento economico mediamente solido, ma non brillantissimo e che dall'altro certificano un andamento sportivo decisamente insufficiente in proporzione alla storicità del club. Ma il grosso delle accuse che si fa alla gestione dell'editore alessandrino è legato, in realtà, ai molti aspetti poco "misurabili", ma altrettanto importanti per quasi tutti i tifosi granata che lui ha costantemente ignorato. La persistente frustrazione delle ambizioni della piazza e un chirurgico intervento di depotenziamento e azzeramento di tutte le peculiarità uniche che rendevano il Torino "Toro" sono, infatti, la colpa più grande della presidenza Cairo. Battere il Milan, seppur non sia mai stato scontato nella centenaria storia granata, è diventato, però, nell'ultimo quarto di secolo un evento da segnare con il circolino rosso sul calendario perché il Torino si è fortemente provincializzato abdicando al suo ruolo storico di "grande" del calcio italiano. Sentire il presidente ripetere costantemente, quasi come un mantra, la frase "direi bene" in risposta a qualunque domanda gli facciano i giornalisti su di un giocatore, su di una partita o su di una qualsiasi situazione di campo o di extra campo fa ormai saltare i nervi anche ad un monaco buddista. Non esiste alcun senso critico in questo personaggio, mentre al contrario abbonda la propaganda il cui unico messaggio è il solito irrealistico "va sempre tutto bene". Anche se non è affatto così.
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I giocatori sono sempre tutti bravi, i tecnici tutti molto motivati e preparati. Addirittura i giocatori che si tenta di sbolognare come Ilic, già venduto allo Spartak Mosca, ma mai partito per la Russia per intoppi mai ben chiariti nella trattativa, per Cairo diventano "forti" e ci si dice "contenti che siano rimasti". Tutto e il contrario di tutto, ma sempre con la stessa tecnica di comunicazione monocorde improntata ad una costante mistificazione della realtà. Per non parlare delle dichiarazioni sullo Stadio Grande Torino: "si ragiona sulla proroga di 18 mesi perché acquistarlo non è possibile" ha detto Cairo nel post partita con il Milan sebbene da tempo il Comune si sia adoperato per far togliere le ipoteche dal Comunale e punti alla sua vendita. Ma Cairo fa orecchie da mercante in questo senso. Strategia? Per la storicità ormai acquisita, direi che possiamo parlare di dichiarazioni che sanno di poca voglia di programmare ed investire come succede da vent'anni a questa parte.
E allora che si vinca solo a Monza domenica per chiudere in maniera pressoché definitiva il discorso salvezza. Un Toro salvo a fine stagione è fondamentale per mille motivi, ma un Toro che arriva, come sempre a metà classifica o giù di lì, è una costante che dovrebbe fare riflettere chi pianifica le stagioni. Mai più su: inaccettabile.
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Difficile purtroppo, però, immaginare una dirigenza ed una proprietà che sfruttino questi mesi di "vantaggio" a salvezza anticipata sostanzialmente acquisita per gettare davvero le basi di una crescita nella prossima stagione con Vanoli o un suo eventuale sostituto. Il mercato invernale ci ha detto chiaramente che anche quando un'esigenza è nota da tempo (vedi Zapata infortunato), la società non si muove con anticipo per colmare la lacuna, ma naviga a vista in attesa di un (improbabile) "affare". E infatti si va avanti così, anzi, si sta fermi così da troppi anni: con il Filadelfia da completare, lo stadio da comprare, il Robaldo ancora da terminare e la squadra da Europa sempre da fare, ma sempre l'anno dopo. Direi bene...
Da tempo opinionista di Toro News, do voce al tifoso della porta accanto che c’è in ognuno di noi. Laureato in Economia, scrivere è sempre stata la mia passione anche se non è mai diventato il mio lavoro. Tifoso del Toro fino al midollo, ottimista ad oltranza, nella vita meglio un tackle di un colpo di tacco. Motto: non è finita finché non è finita.
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