L'Italia non parteciperà al Mondiale per la seconda edizione consecutiva. Un evento clamoroso aggravato dal fatto che la squadra di Mancini si presentava a questi playoff portando il titolo di campione d'Europa ed è stata fatta fuori dalla modesta formazione della Macedonia del Nord. Ora che sono partiti i processi alla squadra, all'allenatore, al presidente federale e a tutto il movimento più che trovare un colpevole, occorrerebbe trovare una soluzione. Perché il problema non è solo che la Nazionale non andrà in Qatar a novembre, ma che il calcio italiano da più di tre lustri sta vivendo una situazione di regressione generale, solo in parte attenuata dalla vittoria di Wembley dell'estate scorsa (la classica foglia di fico). A me piace parlare di Toro, ma questo argomento in un certo senso ha che fare anche con il Toro perché è il calcio italiano nel suo insieme che denota dei limiti evidenti che incidono anche sulle dinamiche del club granata.
Il Granata della porta accanto
E il progetto delle squadre B?
Il Granata della Porta Accanto / L'eliminazione dell'Italia dal Mondiale dovrebbe far riflettere su come è stato gestito il progetto delle seconde squadre
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Innanzitutto penso che un movimento che permette una così evidente sperequazione nella distribuzione delle risorse (vedi diritti TV) non possa non pagare pegno nel lungo periodo a questa palese alterazione della competitività. Se il grosso delle risorse si concentra in pochi club il movimento farà fatica a gestire con efficienza e competenza anche l'emergere dei giovani calciatori italiani. Si è sempre detto che se uno è bravo può esordire in A anche a 18 anni e che se questo non avviene è perché i giocatori in età da Primavera non sono pronti o, molto più semplicemente, non sono abbastanza bravi per fare il salto direttamente in prima squadra. Il Torino, ad esempio, storicamente ha sempre avuto un flusso costante di giocatori che dal settore giovanile passavano in prima squadra, magari con qualche parentesi in prestito in club di serie minori. Negli ultimi vent'anni, però, questo meccanismo si è inceppato e pochissimi calciatori sono emersi da uno di quelli che era considerato tra i vivai più prolifici di Italia. Nelle giovanili in generale lo spazio concesso ai calciatori stranieri (africani, sudamericani e dell'est Europa in particolare) è aumentato tantissimo e se da un lato questo permette di creare competitività tra i ragazzi, dall'altro spesso si deve scegliere chi far andare avanti e tanti ragazzi italiani si vedono negare un futuro nei settori giovanili delle squadre professionistiche. Non è questione di "protezionismo", ma di tutela delle risorse del territorio e sarebbe giusto imporre delle "quote azzurre" nei nostri settori giovanili: per italiani intendere quindi tutti coloro che dai 14 anni in su sono "eleggibili" per giocare con la Nazionale italiana e riservare a questi almeno una percentuale che sia abbondantemente superiore alla metà del numero di giocatori tesserabili nelle varie annate.
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D'altronde non è un segreto che su tutti questi trasferimenti di ragazzi stranieri, specialmente da certe aree del mondo, proliferi una certa dose di affarismo spregiudicato con vari intermediari in prima fila pronti a fare affari d'oro con le commissioni pagate dalle società. C'è poi il grosso problema del salto nel professionismo. La nostra categoria Primavera è inadeguata per far crescere i ragazzi e farli affacciare al professionismo. Il ciclo giovanile dovrebbe concludersi con la Under 18, almeno per i club di A e B, mentre occorrerebbe dare impulso al progetto delle squadre B come in tanti altri Paesi avviene. A vent'anni non si può ancora confrontarsi coi coetanei in un campionato Primavera come il nostro, ma occorrerebbe fare esperienza nel calcio dei "grandi" perché è quello il vero calcio. Le seconde squadre permettono un'esperienza professionistica sotto il "cappello" della propria società con un monitoraggio ed una tipologia di allenamento direttamente controllata dal club e dal suo staff tecnico. In Italia si era partiti bene con l'idea di lanciare le seconde squadre, ma i vincoli economici elevati posti all'ingresso di tali formazioni nei campionati professionistici, la serie C in particolare, ha permesso solo a chi aveva risorse spropositate (la Juventus) di dare avvio a tale progetto. L'errore della Federazione inoltre è stato quello di non imporre dei vincoli per le squadre B di "quote azzurre" in modo da sfruttare questo mezzo per far crescere ulteriormente i talenti nostrani, magari tarando in maniera inversamente proporzionale la quota di iscrizione al campionato al numero degli italiani, sempre intesi come potenzialmente convocabili dalle selezioni nazionali azzurre, in rosa (meno ne hai e più paghi). Le riforme vanno fatte con coraggio e soprattutto senza farsi condizionare dalla logica del profitto: se avere una Nazionale forte è un obiettivo importante per la Federazione allora le direttive devono andare in direzione di tale obiettivo, scavalcando anche i problemi di natura economica. L'esempio della Salernitana (ma c'è anche quello del Bari di De Laurentiis) ha dimostrato come sia inattuabile in Italia e pure poco sportivo il principio della multiproprietà che fa capo allo stesso presidente o gruppo imprenditoriale. Le seconde squadre restano quindi la via più facile per far fare ai giovani esperienza senza perderli di vista.
Negli ultimi anni dal settore giovanile granata non sono certo usciti dei campioni, ma è anche vero che un certo numero di prospetti, se adeguatamente allenati e cresciuti in un contesto di seconda squadra, avrebbero potuto forse essere comprimari poi in prima squadra. Penso ad esempio a Federico Giraudo, terzino sinistro nel primo Toro di Coppitelli, mandato più volte in prestito in C e poi lasciato andare a zero: oggi è alla Reggina in B e sta crescendo ritagliandosi uno spazio sempre maggiore ad un livello sempre più alto. Se fosse rimasto nella seconda squadra del Toro chi dice che non avrebbe potuto poi fare il salto in prima squadra e fare un percorso simile a quello di Vojvoda? Oppure Manuel De Luca, oggi in B a Perugia, prospetto che ai tempi della Primavera era stato valutato 1 milione di euro da una squadra di Bundesliga e che poi è stato lasciato partire senza rinnovargli il contratto dopo alcuni prestiti. Non avrebbe anche lui potuto crescere nella seconda squadra ed avere le sue chance come terza punta in prima squadra? L'elenco è lungo e parla di giovani italiani che non sono stati adeguatamente aspettati e seguiti: non campioni, sia chiaro, ma calciatori che avrebbero potuto fare comunque un percorso più lineare nel calcio professionistico, con delle ricadute economiche e sportive migliori per i club che li avevano cresciuti. Il percorso di maturazione varia da calciatore a calciatore: non tutti sono dei predestinati e gli almanacchi sono pieni di giocatori arrivati in Nazionale con percorsi lunghissimi ed in età non sempre giovanissima (pensiamo ad Antonino Asta). Una via per rendere più competitivo il calcio italiano poteva quindi essere quella delle seconde squadre: quale momento migliore, allora, se non questo, per rimettere mano a quel progetto?
Da tempo opinionista di Toro News, do voce al tifoso della porta accanto che c’è in ognuno di noi. Laureato in Economia, scrivere è sempre stata la mia passione anche se non è mai diventato il mio lavoro. Tifoso del Toro fino al midollo, ottimista ad oltranza, nella vita meglio un tackle di un colpo di tacco. Motto: non è finita finché non è finita.
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