Sgombro subito il campo da un potenziale equivoco che il titolo di questo pezzo potrebbe generare: non parlerò del quarto posto in classifica della Serie A che ormai è diventato come uno scudetto visto che, eccezioni a parte, è l'ultimo che garantisce l'accesso ai milioni della Champions League. Parlo sì, di calcio, ma lo faccio in chiave olimpica visto che sono tutt'ora in corso i Giochi a Parigi e sono ricchi di spunti interessanti su cui soffermarsi anche allargando la visuale al calcio ed alla vita in generale.
Il granata della porta accanto
Elogio del quarto posto
In realtà parto dalla bellissima quanto criticatissima intervista post gara a Benedetta Pilato, classificatasi quarta nella sua gara di nuoto ad un solo centesimo dal podio. La Pilato, di fronte alla giornalista che probabilmente si aspettava una persona affranta per aver sfiorato beffardamente la medaglia e averla persa nella peggiore delle maniere, si dimostra invece contentissima del risultato facendo un'analisi lucida e profonda del percorso che l'aveva condotta a quel risultato e ad essere soddisfatta di quel risultato. Una sorta di elogio controcorrente del quarto posto che sento di poter fare mio perché scardina completamente alle basi il concetto elementare di vincere e perdere. È chiaro che chi arriva primo vince, in tutti gli sport e in tutte le competizioni, mentre è purtroppo meno chiaro l'opposto, e cioè che chi arriva secondo, terzo, quarto e via dicendo non sempre perde. La Pilato, che tra l'altro ha solo 19 anni ed ha quindi ancora un'intera vita sportiva per riprovare a centrare altre finali nel nuoto e a vincere delle medaglie (perché, sia chiaro, nello sport è giusto avere come obbiettivo quello di centrare dei risultati), ci ha semplicemente dimostrato che il lavoro e il sacrificio non possono ridursi a due categorie semplicistiche e "ridottissime" come la vittoria e la sconfitta.
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La vita di un atleta è un percorso complesso, difficile, gratificante e al tempo stesso frustrante: tutto il lavoro che c'è dietro la "prestazione" non viene quasi mai percepito dallo spettatore, ma è invece fondamentale per valutare il senso di un risultato che agli occhi dei più è semplicemente numerico. Ed è per questo che le parole della Pilato dovrebbero aver aperto gli occhi a tantissima gente.
Traslando tutto ciò al calcio e, nello specifico al Toro, che è ciò che ci interessa, penso che i concetti espressi dalla nuotatrice italiana (e se qualcuno ricorda bene in maniera del tutto similare anche dal cestista NBA Antetoukumpo in una famosa intervista post eliminazione della sua squadra, i Milwaukee Bucks, dai playoff dell'anno passato) trovino terreno fertile nell'approccio "alla maglia" che il tifoso granata mediamente ha. Il sacrificarsi, il dare tutto in campo, il misurarsi con forze superiori, sono da sempre i "drive" con cui il tifoso del Toro giudica le prove della sua squadra a prescindere dal risultato oggettivo. È nel dna della nostra tifoseria l'elogio "del quarto posto" proprio per l'estrema peculiarità unita ad ideali più elevati con cui solitamente affrontiamo l'approccio all'evento agonistico. E non c'è neppure alcun equivoco sull'ambizione di vincere della gente granata, ambizione che erroneamente alcuni dicono non esserci: noi tifosi del Torino sappiamo cosa vuol dire trionfare e primeggiare avendo avuto nella nostra storia la squadra più forte di sempre, il Grande Torino. Per fortuna però questo non ha distorto il senso del valore della vittoria e anzi ne ha fissato in noi uno standard alto non tanto per gli irripetibili risultati in sé di quella straordinaria squadra, ma per il modo tanto nobile quanto tremendamente "popolare e popolano" in cui questi risultati arrivavano. Non c'è nessuna "tirannia sportiva od economica" dietro le vittorie del Grande Torino, non c'è superbia e non vi è alterigia in quel fantastico gruppo di uomini che nel Dopoguerra ha scritto una delle pagine più vere di riscatto nella storia della nostra nazione piegata dalla follia del secondo conflitto mondiale. L'elogio del quarto posto, come l'ho definito in questo pezzo, non è una cosa da "sfigati" come potrebbero pensare i tifosi di altre squadre che non citerò, anzi, è un'esercizio di illuminata e genuina virtù: quando i ragazzi scendono in campo con la maglia del Toro io sugli spalti li valuto per tutta una serie di parametri che esulano dal mero risultato. Il che non significa che il risultato non sia importante, ma semplicemente che non è la cosa più importante.
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Perché allora una grandissima maggioranza di tifosi oggi è arrabbiata e delusa dalla gestione del presidente Cairo? Perché col suo modo di fare da "amministratore di condominio" sta tradendo i valori che dà sempre contraddistinguono il Torino ed il suo approccio alla competizione: il presidente in questi vent'anni ci sta togliendo identità e soprattutto la capacità di competere nel solco delle nostre caratteristiche peculiari. C'è una frase fantastica presa dal calcio inglese: we don’t demand a team that wins, we demand a club that tries...(trad. Non vogliamo una squadra che vinca, ma un club che ci provi...).
Ecco sintetizzato il perché nessuno vuole che Cairo metta cinquanta milioni all'anno per fare uno squadrone di vertice, ma tutti vogliamo che utilizzi in maniera più congeniale alla piazza ed alle sue esigenze, le risorse che ha. Ecco, quindi, il vero nodo delle critiche verso il presidente. Se avesse perseguito una crescita societaria e di squadra in linea con le aspettative della tifoseria (identità di squadra, giovani del vivaio, infrastrutture adeguate, tecnici e dirigenti con mentalità "da Toro", ecc.) il giudizio sul suo operato sarebbe diametralmente opposto anche a parità dei risultati ottenuti fino ad oggi. La storia del Torino è piena di campioni, di vittorie, di tragedie e di sconfitte. Ma una cosa non deve mai mancare a questa squadra: lo spirito unico che la contraddistingue. Se togli questo a club, squadra e tifoseria cosa resta per cui valga la pena di lottare e di andare oltre il mero senso di vincere e perdere?
Da tempo opinionista di Toro News, do voce al tifoso della porta accanto che c’è in ognuno di noi. Laureato in Economia, scrivere è sempre stata la mia passione anche se non è mai diventato il mio lavoro. Tifoso del Toro fino al midollo, ottimista ad oltranza, nella vita meglio un tackle di un colpo di tacco. Motto: non è finita finché non è finita.
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