Lo sport per definizione è sinonimo di competizione, di confronto con gli altri atleti, di ricerca della prestazione migliore. Ancorchè lo si pratichi seguendo di fondo il principio decoubertiniano de "l'importante è partecipare", il motore che spinge qualsiasi atleta, soprattutto se professionista, nella competizione è quello di prevalere. Qualunque ragazzo o ragazza arrivi ad essere in età adulta un professionista del proprio sport ha un background fatto di successi nelle categorie giovanili che gli hanno permesso di superare la naturale selezione che c'è in ogni ambito sportivo. Il calcio non fa eccezione perché ogni ragazzo che approda al professionismo ha maturato e coltivato nella sua esperienza giovanile una mentalità vincente che non necessariamente combacia con il conseguimento di un tot di vittorie delle squadre in cui ha giocato (proprio perché il calcio è uno sport di squadra e le dinamiche che portano alla vittoria sono complesse e non riducibili, salvo rari casi, all'apporto unico di un singolo) ma che a livello personale gli ha permesso di emergere in un élite di atleti ritenuti idonei a giocare a certi livelli. Mi fa ridere quando sento dire che questo calciatore o quel calciatore sono dei perdenti perché ogni calciatore in realtà è "programmato" dal suo imprinting di formazione e crescita sportiva a scendere in campo per fare meglio dell'avversario che ha davanti. Ciò però che rende una squadra vincente o meno è invece tutto ciò che gli sta attorno: società, staff, dinamica di gruppo, ambiente. I risultati sono sempre figli di un mix di tutte queste cose e più il livello si alza, più ogni singolo elemento di questo mix diventa determinante nello spostare il peso della bilancia tra successo ed insuccesso. In un mondo dello sport dove le prestazioni atletiche sono ormai portate all'estremo, quello che un tempo potevano essere considerati dettagli come l'alimentazione o lo staff medico, oggi, a parità di altri fattori, possono invece fare la differenza.
Il granata della porta accanto
Il solito Toro di Cairo: senza ambizioni
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Questa mia lunghissima premessa si è resa necessaria per introdurre alcune considerazioni sulla sconfitta del Torino a Firenze e, più in generale, sulla mancanza, da troppo tempo ormai, di ambizioni sportive di questo club. Il Toro, l'altra sera nei quarti di finale di Coppa contro la Fiorentina, ha perso l'occasione più ghiotta degli ultimi trent'anni di poter ambire a tornare a vincere qualcosa, specialmente, e qui fa ancora più male, alla luce dell'incredibile vittoria della Cremonese sulla Roma. Una semifinale su doppio confronto (e attenzione che qui sta la diabolicità di chi ha pensato l'iniquo formato della Coppa Italia prevedendo il doppio confronto solo in semifinale proprio per evitare che i casi eclatanti di squadre come la Cremonese o l'Alessandria nel 2016 potessero portare in finale veri outsider favoriti dall'imprevedibilità della gara secca…) con una squadra sulla carta più abbordabile avrebbe potuto trasformarsi in una finale quasi certa dove giocarsi il tutto per tutto in una partita unica. La sconfitta è figlia di una superiorità della Fiorentina nel secondo tempo, certo, ma anche, secondo me, dell'ormai atavica mancanza di obbiettivi veri della società e del timing sbagliato delle scelte di questo mercato invernale da parte della dirigenza granata. Vendere Lukic il giorno prima della partita più importante dai tempi di Toro-Zenit è stato un autogol emotivo clamoroso che la società si è fatta da sola. Non contesto la vendita in sé di Lukic che, a grandi linee, ci può stare per mille ragioni, tra cui quella non meno trascurabile del suo ammutinamento prima di Monza, ma il farlo sul gong di mercato alla vigilia di una sfida fondamentale non ha fatto altro che trasmettere il messaggio di una società che non ha nessun interesse nel coltivare i risultati sportivi. Lukic si poteva vendere il 3 gennaio, così come Ilic e gli altri calciatori che servivano si potevano prendere a inizio mese, tutt'al più considerando che il campionato era fermo da metà novembre e c'era tutto il tempo per imbastire le trattative nei quasi due mesi di pausa per il mondiale. E invece come al solito ci si è ridotti a fare tutto agli ultimi due giorni lasciando nell'incertezza lo staff tecnico e gli stessi calciatori sino alla vigilia del quarto di finale di Coppa. Le parole di Juric, poi, sono state illuminanti in proposito: "ci siamo indeboliti, non è vero che ho litigato con Vagnati, non è lui che decide certe cose…".
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A chi si riferiva quindi il mister? Forse alle scelte dettate da Cairo? Certamente. D'altronde da sempre il mood aziendale viene impartito dal proprietario, se padre/padrone come nel caso del nostro presidente, o dalla dirigenza, se delegata a ciò dalla proprietà (ad esempio come nel caso dell'Inter dove Marotta ha cambiato molto l'andazzo in casa nerazzurra dal suo arrivo). Il Torino è in mano a Cairo da diciotto lunghi anni, un periodo statistico talmente affidabile, ormai, che ogni considerazione sulla sua presidenza è ormai un fatto constatato più che un'opinione. Allora non bisogna aver paura di dire che il modo di gestire il Torino da parte di Cairo è vincente sotto il profilo economico, ma decisamente perdente sotto il profilo sportivo. Il "tocco magico" del nostro presidente in tutte le attività economiche da lui gestite è assolutamente inadatto al Torino FC e alle ambizioni sportive di questa piazza. Cairo sta accumulando scudetti del bilancio tanto quanto tristissimi record negativi sul piano sportivo: la peggiore sconfitta casalinga di sempre, un numero di derby persi imbarazzante e senza uguali nella storia ultracentenaria di questa società, nessun piazzamento europeo in campionato (le due partecipazioni all'Europa League sono avvenute per penalizzazione delle squadre che ci erano arrivate davanti), nessun percorso oltre i quarti di finale in Coppa Italia. Una mediocrità sportiva volutamente alimentata da mere priorità economiche. Un'aridità emotiva anche nei momenti in cui si poteva osare di più per coltivare qualche sogno talmente palese da non sembrare neppure logica per la natura e l'ambizione di chi di solito sta a capo di una società sportiva. Questo è Cairo e questo è il suo Torino.
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Professionisti come Juric (ma anche come fu Miha, ad esempio), mai messi in condizione di fare un passo in più della metà classifica. Calciatori ormai abituati a considerare il Toro come una piazza trampolino per future reali ambizioni in altri lidi. Noi tifosi ci accapigliamo discutendo sulle scelte dell'allenatore di turno o sui gol sbagliati dal giocatore di turno, ma il problema sta a monte, in una proprietà che non ha mai posto obiettivi ambiziosi semplicemente perché richiedevano maggiori impegni economici. L'obbiettivo è restare in Serie A per continuare a prendere i diritti TV, vera e unica linfa che permette alle società di autofinanziarsi e ai presidenti di non investire attingendo alle proprie risorse. Altro non è previsto. Peccato che a noi tifosi manchi in toto il gusto di poter sognare qualcosa di più. Non magari una squadra che vince, ma una che almeno ci possa provare. E per averla qualcuno che ha il potere di decidere deve decidere di provare a costruirla una squadra così. Di darle una mentalità vincente ad una squadra così. I fatti ci dicono però che ciò non accade e che il Torino di Cairo dimostra ad ogni occasione importante di avere una mentalità perdente. Difficile farsene una ragione. Perché per fortuna da queste parti vincere non è l'unica cosa che conta e, grazie al cielo ci differenzia chiaramente da "quegli altri" specialisti in ogni tipo di alterazione della competizione sportiva, ma nemmeno siamo meri seguaci del Barone De Coubertin. Perché se non ci fosse la speranza che ogni tanto possa accadere qualcosa di bello, guadagnato sul campo con la grinta e con la voglia, che senso avrebbe tifare Toro?
Da tempo opinionista di Toro News, do voce al tifoso della porta accanto che c’è in ognuno di noi. Laureato in Economia, scrivere è sempre stata la mia passione anche se non è mai diventato il mio lavoro. Tifoso del Toro fino al midollo, ottimista ad oltranza, nella vita meglio un tackle di un colpo di tacco. Motto: non è finita finché non è finita.
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