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Presidente, se anche Pato Hernandez le indica la via…
Mi è capitato di leggere un'intervista su toro.it a Pato Hernandez, numero 10 argentino che ha giocato nel Toro dall'82 all'84, uno dei primi stranieri a vestire la maglia granata dopo la riapertura delle frontiere nel 1980. Il grintoso, ma molto tecnico, Hernandez pagò al tempo la nomea di "vice" Maradona con la quale arrivò dall'Argentina visto che era stato la riserva di Diego nel Mundial di Spagna e fu ceduto all'Ascoli dopo due sole stagioni, forse giocate al di sotto delle aspettative seppur con il ragguardevole score di 15 reti in 57 presenze. A parte percepire chiaramente ancora a distanza di quasi quarant'anni il suo attaccamento ai colori granata, quello che mi ha colpito delle sue parole è stata l'affermazione: "giocavamo i derby sapendo di poterli vincere". Parliamo da decenni ormai del declino del Torino a livello non solo, o almeno non tanto, di risultati sportivi, ma più che altro a livello di mentalità e valori che dovrebbero permeare questo club e la sua coesione con la tifoseria, quando alla fine la sostanza è proprio nella frase che ho estrapolato dalle dichiarazioni del buon Pato Hernandez: giocavamo i derby sapendo di poterli vincere. Ascoltare queste parole è come essere "folgorati sulla strada di Damasco". La domanda sbagliata che spesso ci facciamo, infatti, è: quando è cambiato tutto? E la risposta che ci diamo è ancora più fuorviante: negli anni Novanta con l'avvento delle pay tv e i soldi a pioggia dei diritti televisivi. In un certo senso domanda e risposta non sono sbagliate in sé, perché la storia è quella, palese e chiara sotto gli occhi di tutti, ma quello vi trovo di sbagliato è che mettendo un paletto temporale e trovando una causa esogena, cioè esterna al Toro, ci confezioniamo un alibi perfetto per accettare quello che è il Toro di oggi. Che il calcio sia cambiato, che i tempi siano cambiati e che alcuni modelli del passato non siano più attuabili è verissimo e solo uno sciocco potrebbe non riconoscerlo, ma i cambiamenti esterni del contesto in cui ci si muove e si opera richiedono degli adeguamenti interni per adattarvicisi e soprattutto per mantenere la propria identità in un quadro profondamente modificato. Ed infatti è proprio questo quello che da Calleri in avanti non è avvenuto a causa di scellerate gestioni e miopi rivoluzioni. Prendiamo il Filadelfia: Calleri non vedeva l'ora di disfarsene perché era, già a metà anni Novanta, pressoché inagibile e il presidente ex Lazio non aveva il benché minimo desiderio di investire neppure un euro in quella struttura: la Fondazione di Novelli, l'ex sindaco di Torino, vera eminenza grigia della fine del Fila, fu l'occasione per togliersi una grana. Da lì il tentativo di speculazione edilizia-commerciale sotto Cimminelli fu il punto più basso di una vicenda in cui i valori del club che nel Fila avevano il loro luogo naturale di espressione vennero messi sempre più in disparte. Cairo ha commesso lo stesso errore dei suoi predecessori: pur avendo la possibilità di essere motore della rinascita "morale" del Torino ha preferito delegare ad altri ed andare a rimorchio della Fondazione Filadelfia per tutto ciò che è stato il lunghissimo, e tutt'ora in atto, processo di ricostruzione del Fila. Il patron ha perso, e con la chiusura delle porte ai tifosi, ancora oggi continua a farlo, l'occasione di rilanciare il Torino dandogli una dimensione davvero "speciale" all'interno del calcio moderno. Ricostruire l'identità del Torino in cui giocava Pato Hernandez vorrebbe dire riportare quella mentalità che permetterebbe a chiunque indossa la maglia granata di affrontare una partita di livello, un derby, la coppa Italia o anche un campionato, perché no, con la prospettiva di poterlo vincere. Che non vorrebbe dire vincerlo, ma semplicemente avere la consapevolezza che ciò potrebbe avvenire. La chiave di tutto è questa. Si parla di fatturati nel calcio d'oggi come dell'unica bussola per i successi o gli insuccessi sportivi. In parte è così, ma poi c'è una parte che dipende, come sempre dall'organizzazione, dalla coesione delle componenti di club (dirigenza, giocatori, tifoseria), dalla mentalità e su tutti questi aspetti ci si può lavorare a prescindere dai fatturati. Ambizione è la parola più demonizzata dal presidente Cairo che ha paura di dichiarare obbiettivi anche minimi. Sbagliatissimo. L'ambizione deve esserci e in passato c'è sempre stata nel Torino. Senza quella, unita alla feroce determinazione di cui il tremendismo granata era l'emblema e l'essenza lungo il corso di tutta la nostra storia, non ci sarebbero stati gli scudetti, le coppe Italia, i derby vinti, le finali di Coppa e i piazzamenti di prestigio in campionato. Il peccato originale di Cairo e della sua gestione, di sicuro oculata (a parte qualche scivolone tipo Verdi) economicamente parlando, è stata proprio quello di soffocare in culla l'entusiasmo e la rinascita della mentalità "da Toro" che si respirava nel 2006 qua in città (dove tra l'altro con Calciopoli la Juve era pure finita in B) e l'aver poi sistematicamente ignorato ogni istanza ed ogni esigenza che la piazza sollecitava per riportare il Torino ad essere Toro almeno nell'approccio alle partite ed alle stagioni. I pochi sussulti di granatismo degli ultimi 17 anni, che fossero giocatori (penso a Bianchi o a Belotti) o allenatori (in ultimo lo stesso Juric) hanno operato e operano in un contesto in cui i semi che portano un DNA granata non riescono ad attecchire e a germogliare perché non c'è un progetto globale che li possa sostenere e usare come un volano.
Qualcuno diceva che Hernandez ha vinto più derby in due anni (2) di quelli vinti da Cairo in 18 (1): un'ironica ed amara battuta che la dice lunga sulla diversa mentalità con cui si affrontano e si affrontavano le sfide nelle due diverse epoche. Il bello è che ritrovare quella mentalità non è impossibile, è semplicemente un processo lungo che qualcuno, credendoci, può iniziare in qualunque momento, anche nel Toro di oggi. Quel qualcuno dopo 17 anni non è Cairo, ormai è palese a tutti. È per questo che il presidente, visto che non vuole cedere il club, potrebbe almeno fare "un passo di lato" e delegare questa mission ad un uomo "forte" che lo faccia in vece sua. È quello che i tifosi vorrebbero più di ogni altra cosa ed è quello che nel medio periodo probabilmente gli farebbe guadagnare più soldi di quelli che dice di aver perso in tutti questi anni. Francamente non capisco e non vedo un motivo valido per non farlo.
Da tempo opinionista di Toro News, do voce al tifoso della porta accanto che c’è in ognuno di noi. Laureato in Economia, scrivere è sempre stata la mia passione anche se non è mai diventato il mio lavoro. Tifoso del Toro fino al midollo, ottimista ad oltranza, nella vita meglio un tackle di un colpo di tacco. Motto: non è finita finché non è finita.
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