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Il perduto amore

Anthony Weatherill
Loquor / Torna la rubrica del nostro Anthony Weatherill: "Quello che non si è capito dell’ultimo Derby della Mole, è che ormai Torino/Juventus non è più uno scontro tra poveri e ricchi, bensì un momentaneo incrociarsi di due mondi che...

“Mai prima d’ora abbiamo avuto così poco tempo per fare così tanto.”

Franklin  Delano Roosevelt

L’ultimo Derby della Mole ha lasciato uno strascico di commenti che, a volerli riassumere sinteticamente, sostenevano più o meno questo: il Torino da decenni non riesce più a reggere un confronto dignitoso con la Juventus. Il risultato, secondo i vari editoriali (anche tra quelli più autorevoli), è che il comportamento eccessivamente rinunciatario della squadra granata abbia sancito definitivamente la perduta identità da combattimento “poveri contro ricchi” del derby del capoluogo piemontese. E’ colpa della poca qualità della rosa del Torino? E’ colpa dell’allenatore? E’ colpa di Urbano Cairo che non investe a sufficienza per rinforzare l’organico della squadra che presiede? L’ultimo Torino Juventus ha fornito la stura, attraverso i molteplici mezzi di comunicazione che attraversano l’Italia, di concionare sul declino del calcio italiano. Ad essere più precisi e chiari: l’ultimo Derby della Mole è assurto ad archetipo di tutti i mali, veri o presunti, del calcio italiano. Sarà vero? Sarà la solita inclinazione all’autolesionismo degli italiani? Proviamo a capire.

Barcellona, Real Madrid, Manchester City, Manchester United, Arsenal, Liverpool, Chelsea, Bayern di Monaco, Paris Saint Germain e Juventus. Queste sono i club che, negli ultimi anni, hanno aumentato sensibilmente i loro ricavi. Sono solo dieci club, e cinque di questi sono inglesi. Tre di questi club (Juventus, Paris Saint Germain, Bayern di Monaco) da anni giocano praticamente da soli nei loro rispettivi campionati, inanellando record di vittorie non tanto grazie ad una solida programmazione sportiva o a fecondi settori giovanili, ma semplicemente perché possiedono una forza economica spropositata rispetto agl’altri competitor nazionali. Le principali squadre della Eredivisie olandese e della Pro League belga, un tempo protagoniste importanti nelle varie competizioni europee, oggi sono praticamente sparite da ruoli di primo piano. E’ davvero triste vedere il Feyenoord (vincitore di una Coppa dei Campioni, di una Coppa Intercontinentale, di due Coppa Uefa, di 12 coppe d’Olanda, di 15 campionati olandesi), fare la figura di “squadra materasso” nel suo girone della Champions League 2017/18. Il declino europeo del calcio olandese, è la chiara intenzione manifesta di una risposta, tra le tante, che la società olandese ha voluto dare alla perdita di potere geoeconomico (neologismo introdotto da Edward Luttwack sul finire degli anni 80) del continente europeo.

Prendendo in esame la storia del modello italiano, si può facilmente rilevare come le proprietà delle squadre di calcio siano sempre state appannaggio di famiglie molto ricche, che avevano un qualche interesse a investire capitali di cui erano certi essere a fondo perduto. Così assistiamo, ricordando solo le ultime del periodo d’oro del calcio italiano, alla famiglia Sensi alla Roma, alla famiglia Moratti all’Inter, alla famiglia Berlusconi al Milan.Il  capitalismo familiare italiano(dal connotato molto oligarchico) controllava gran parte del calcio italiano e lo rendeva se non ricchissimo, felicemente benestante. Una delle virtù antropologiche del capitalismo familiare, è quello di sapersi autonomamente dare un “tetto” ai propri capitoli di spesa. Anche quando ci sono le stagioni delle vacche grasse, l’atavica prudenza che contraddistingue lo spirito di autoconservazione di una famiglia pone sempre un freno all’eccessiva spesa che, prendendo un aspetto di perversione, potrebbe tramutarsi in un pernicioso sperpero, dannoso per il buon funzionamento di un corretto libero mercato. L’unica eccezione a questo panorama di stampo familiare, è sempre stata la Juventus. La società bianconera erroneamente è spesso accostata alla famiglia Agnelli, poiché essa (la Juventus) è in realtà uno dei tanti pianeti e satelliti della “Galassia Fiat”, una delle due vere multinazionali (l’altra è l’Eni) nate in Italia. L’opacità camaleontica che le contraddistingue, consente alle multinazionali di adattarsi a qualsiasi tipo di clima politico o assetto socio/finanziario. Ciò ha reso indenne una società come la Juventus, ad ogni tipo di cambiamento che l’ Italia ha subito, nella sua struttura economica, a partire da due accadimenti fondamentali: l’abolizione della legge “Glass-Steagall”(che sanciva la separazione tra banche d’affari e banche commerciali) nel 1999 e l’ingresso nel 2001 della Cina nel WTO (l’organizzazione del mercato mondiale).

Queste due tappe fondamentali della storia dell’economia contemporanea, hanno cambiato radicalmente il mondo della manifattura e dei profitti e delle perdite derivanti dai “commerci” di natura esclusivamente finanziaria. Il mondo si è finanziariamente e commercialmente globalizzato. Il sottile confine che divide libertà, caos e oligarchia si è trovato, così, improvvisamente frantumato. Quando questo cambiamento copernicano si è abbattuto sulle proprietà delle squadre di calcio inglesi, la Premier League ebbe subito un aumento sia dei costi d’esercizio e di mercato giocatori,sia dell’ aumento dei ricavi. Diverse proprietà dei club della Premier furono acquisite da Fondi sovrani e multinazionali,  andando a sostituire le proprietà vecchio stampo, che fino a quel momento avevano mantenuto il buon senso delle regole del libero mercato. Gente come Roman Abramovich, con quel suo usare la forza del suo denaro a sproposito, come se il Chelsea più che una società di calcio(quindi un bene comune) fosse il suo giocattolo personale, ha letteralmente sconvolto il rapporto ricavi/costi d’esercizio del calcio del continente europeo(praticamente il caos). In Francia, se si esclude l’enclave fondo sovranista del Paris Saint Germain, il calcio continua ad essere periferia rispetto ad altre realtà. In Spagna il solco economico tra Barcellona, Real Madrid e il resto della Liga si è allargato ancora di più. In Germania il Bayern di Monaco da anni gioca praticamente da solo, anche se la legge che obbliga i club all’azionariato popolare ha contribuito a creare dei solidi settori giovanili, dove si sfornano di continuo ottimi giocatori e campioni . In Italia, con la desertificazione imprenditoriale è una perdita del pil del trenta per cento rispetto al periodo ante crisi economica, il calcio si è ritrovato senza più adeguati investimenti. A parte la Juventus, che come si è detto è protetta dalla grande coperta fornitale dalla multinazionale Fiat, i club si sono trovati con delle proprietà cinesi incerte e lacunose, con proprietà americane dalle inquietanti intenzioni, e con proprietà di imprenditori(Lotito, Cairo, ecc..) che nemmeno lontanamente ricordano i Berlusconi, i Moratti, i Tanzi, i Sensi.

Prendiamo i due presidenti che stanno guidando la rivolta in Lega Calcio: Claudio Lotito e Urbano Cairo. Uno ha fatto soldi essenzialmente con le imprese di pulizia, l’altro ha un’interessante impresa editoriale che impallidisce di fronte ai colossi di tipi come Vincent Bollorè o Silvio Berlusconi (non voglio nemmeno tentare di paragonare Urbano Cairo ai grandi editori anglosassoni. Sarebbe una perdita di tempo). Cairo, Lotito, De Laurentis e gli altri fanno quello che possono, ma la sensazione è che la Juventus sia davvero troppo lontana per questi competitor. Questo, comunque, non è il momento di assegnare delle colpe per tale mancanza di competitività, ma piuttosto di cercare soluzioni. Fa riflettere che tra i dieci potenti club sopracitati, i tre non in mano a delle multinazionali o fondi sovrani, sono polisportive e azionariati popolari. Bayern di Monaco, Barcellona e Real Madrid sono governati dalla gente, per la gente, tra la gente. L’insegnamento che ne deriva è che, forse, le persone devono riprendere in mano la propria vita, anche attraverso cose come lo sport. Quello che non si è capito dell’ultimo Derby della Mole, è che ormai Torino/Juventus non è più uno scontro tra poveri e ricchi, bensì un momentaneo incrociarsi di due mondi che stanno sempre più allontanandosi.  E quando due mondi si allontanano, anche sentimenti come amore/odio finiscono per essere sempre più ovattati, come echi che giungono da un remoto sempre più sconosciuto. E senza sentimenti, non c’è più derby. Non c’è più sfida. Non c’è più sport. Le istituzioni sportive devono trovare il modo di fermare lo strapotere senza senso di alcuni club, altrimenti la conseguenza sarà che il calcio, per la gente, avrà sempre più i contorni di un perduto amore.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.