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GENOA, ITALY - OCTOBER 18: A banner is shown in memory of Franco Scoglio manager of Genoa CFC during the Serie A match between Genoa CFC and AC Chievo Verona at Stadio Luigi Ferraris on October 18, 2015 in Genoa, Italy. (Photo by Gabriele Maltinti/Getty Images)
Il migliore non è chi in cento battaglie riporta cento vittorie. (...) Il migliore in assoluto è chi non dà nemmeno battaglia, e sottomette le truppe dell'avversario.
Sun Tzu
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Una trasferta a Milano, una situazione di classifica drammatica, un disperato bisogno di punti. Mancavano sette giorni a Natale. Una settimana prima, la Maratona tuonò: “Radice e undici granata contro tutti: non siete degni di vestire la stessa maglia, vergogna”. Il popolo granata, ferito nell’orgoglio dalla tremenda sconfitta nel derby (un 5-0 devastante), non poteva assistere inerme a cotanto scempio e si ribellò con quello striscione pieno di nostalgia per i bei tempi che furono. La squadra stava naufragando, Sonetti era stato esonerato dopo il derby e sulla panchina del Toro si era appena seduto uno dei personaggi più iconici e più incredibili del nostro calcio: il Professore, al secolo, Franco Scoglio.
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Nella partita che precedeva la trasferta meneghina, il Toro aveva vinto, in casa per 4-2, contro il Piacenza, una diretta concorrente per la retrocessione. Contro gli emiliani, nella sua prima panchina granata, Scoglio aveva puntato sul carattere, sull’orgoglio, cercando di restituire serenità ad un gruppo depresso da risultati negativi, nascondendo sotto il tappeto le lacune più evidenti dell’organico.
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Il Meazza era il solito catino bollente e, come sempre, il suo pubblico è esigente. I tifosi milanisti lamentavano l’eliminazione dalla Coppa Italia (ai rigori contro il Bologna, squadra di B), il pareggino asfittico di una settimana prima contro il Napoli e non perdonavano il momento difficile, dovuto a una serie di eventi ravvicinati, coppa UEFA compresa. Il Toro, pertanto, appariva come la miglior medicina contro i mal di pancia milanisti. Del resto, il Milan di Capello era primo in classifica e il pronostico sulla carta era chiuso. Cosa mai avrebbe potuto inventare il tecnico di Lipari per uscire indenne da San Siro? Una sofisticata zona? Una zona sporca? Niente di tutto questo. Il termine esatto fu, catenaccio.
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Il Toro di San Siro scendeva in campo con Caniato tra i pali, linea difensiva con Dal Canto, Falcone, Maltagliati e Cravero, sugli esterni Angloma e Milanese, Bacci e Abedì Pelé in mezzo al campo, quest’ultimo, all’uopo, nell’insolita veste di interno. Davanti Karic e Rizzitelli.
Retroguardia folta, centrocampo a proteggere la linea difensiva. Nel Milan, assente Savicevic, Capello si affidava a Baggio e Weah; Eranio a centrocampo insieme a Boban e Desailly mentre in difesa, i super titolari da scioglilingua classico: Tassotti-Baresi-Costacurta-Maldini. In porta, Rossi.
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L’inizio era tutto nostro. Lancio di Dal Canto, Rizzitelli si ritrovava a tu per tu con Rossi ma si faceva ipnotizzare. Sul prosieguo dell’azione, Karic veniva atterrato in area da Albertini. Rigore che l’arbitro Tombolini assegnava senza indugi e che Rizzitelli trasformava per il momentaneo 1-0, beffando Rossi (che aveva intuito). Avevamo ovviamente segnato troppo presto. Sugli spalti c’era incredulità ma soprattutto consapevolezza che le nostre speranze di mantenere il vantaggio fossero scarsissime. In soldoni, non ci credeva nessuno.
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Non avevamo nemmeno fatto in tempo a prendere fiato che il Milan si scatenava. Non dovevamo segnare, lo sapevo. Boban di testa, Caniato in bello stile, sopra la traversa. Maldini in percussione, Caniato a valanga, palla in angolo. Calcio d’angolo (saranno dodici per il Milan a fine partita), cross di Baggio, testa di Boban. Rete, 1-1. Dopo soli sei minuti, i rossoneri avevano rimesso a posto le cose. San Siro si ridestava. In sciopero e incazzati neri, i tifosi rossoneri spingevano la squadra in maniera incessante. Il Toro arretrava il baricentro, arroccandosi attorno alla propria area. Le consegne erano chiarissime: reparti corti, chiusura degli spazi, ferocia agonistica nei contrasti, zero fronzoli. Barricate che nemmeno a Lipsia. Cravero salvava sulla linea, Caniato si ergeva ad eroe, in una delle poche esibizioni positive dei nostri portieri durante la stagione. Quando l’arbitro decretava la fine della prima frazione, i fischi erano tutti per i padroni di casa. Venimmo contati in piedi, come lo sfidante che fatica a mantenere il ritmo del campione.
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Alla ripresa delle ostilità, Capello calava il jolly: dentro Simone e modulo che passava da due a tre punte. Scoglio che aveva subodorato la mossa, rispondeva togliendo Karic e buttando nella mischia Bernardini, per aumentare la densità a centrocampo. Il Milan, squadra tecnica, piena zeppa di piedi fini, patì oltremodo la condizione del manto erboso gibboso e pieno di buche: per il Toro, in quella strenua difesa ad oltranza, il prato di San Siro divenne un alleato.
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Caniato diventava protagonista assoluto e quando non ci arrivava lui, ci pensava Angloma. Il francese, in maniera fraudolenta, per evitare la rovesciata di Weah, si gettava a corpo morto sul pallone e, con un galeotto colpo di mano, impedì l’impatto al liberiano. Fu la mano di Jocelyn, questa volta, a salvare il Toro. La panchina del Milan, per usare un eufemismo, protestò vivacemente. Perdevamo per infortunio Rizzitelli e Angloma e difendevamo a pieno organico, con un encomiabile Abedì Pelè, che retrocedeva fin sulla linea dei terzini. Nella nostra area si susseguivano situazioni laocoontiche. L’area piccola era il nostro Piave: Caniato bloccava su Desailly e Boban, respingeva una punizione di Baggio e salvava sulla linea l’ennesima mischia successiva a corner.
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Il tempo trascorreva lentamente. Dal terzo anello, il boato di San Siro era un urlo leonino, gli oltre 50mila adesso però erano simili al pubblico della Scala inviperito nei confronti del tenore che stecca alla prima. Era un urlo nervoso, stizzito, ferito nell’orgoglio, frustrato dalla difesa di quel Toro barricadero. A quattro minuti dalla fine, Bacci, già ammonito, abbrancava la palla con le mani per fermare Di Canio, lanciato in fascia. L’assedio assumeva proporzioni da Fort Apache, Alamo, Orleans, con Caniato sempre più protagonista. Al triplice fischio, esplodevamo di gioia, nemmeno avessimo vinto. Avevamo imbrigliato la prima in classifica e lo avevamo fatto disegnando una nuova linea Maginot. La cosa più bella è che non ce ne vergognavamo perché avevamo fermato gli avversari con le poche armi che avevamo a nostra disposizione.
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Scoglio usciva brandendo il pugno verso i tifosi, come il più grande dei condottieri. Il Sun Tzu di Lipari, tornava da quella trasferta impossibile con un punto, dopo aver impedito ai suoi avversari di prevalere, difendendosi ad oltranza, consegnandosi volontariamente ma solo apparentemente. Del resto, da un uomo che passava i propri pomeriggi a studiare la posizione in campo del volante uruguagio Santiago Ostolaza, o che immaginava ventuno modi per battere un calcio d’angolo, ci si poteva aspettare questo ed altro. Era una vendetta in salsa sicula che il Professore cucinò per l’odiato rivale, Fabio Capello che, nel post partita, smoccolava per il rigore non concesso e mostrava il lato peggiore di chi non accetta il risultato del campo.
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Quella fu una delle poche battaglie vinte, nell’anno di una guerra perduta fragorosamente. Ma che non fosse stagione lo si capì sin da subito. A Scoglio, infine, succedette Vieri e arrivò la retrocessione. La nostra storia a San Siro impone che ci sia sempre qualcosa di epico a condire i risultati migliori. Basti pensare a Bayeye che, in una fredda notte di gennaio, in contropiede, centra basso per Adopo che insacca nell’angolo basso, in dieci, ai supplementari. È storia recente, eh. Crederci è il minimo sindacale. Ricordarsi di averlo già fatto è obbligatorio.
Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.
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