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Che strana partita ci attende domenica al Grande Torino … pardòn, all’Olimpico! A sfidare i granata arriverà una grande: la Roma dell’intramontabile Totti a caccia del quinto posto utile per giocare in Europa la prossima stagione. Ma il calendario sovraffollato può dare una mano a Ventura e ai suoi ragazzi. L’ENIGMA VIVES – Dopo la trasferta di campionato di domenica i giallorossi disputeranno mercoledì 17 a San Siro con l’Inter la semifinale di ritorno di Coppa Italia. All’andata fu 2-1 per la “Magica”: dovessero eliminare i nerazzurri in finale li attenderebbe - che scherzo del destino! - la Lazio. Vuoi vedere che Andreazzoli, pragmatico mister sessantenne proveniente dal settore giovanile subentrato a Zeman a campionato in corso, risparmierà al Pupone le fatiche del campionato? D’altro canto Ventura avrà gli uomini contati a centrocampo. Squalificato Basha e ancora infortunato Brighi, a fare coppia con Gazzi in mezzo al campo sarà quasi certamente Beppe Vives. I critici più spietati di lui dicono: non sarà mai adatto a giocare in serie A! A dire il vero Ventura, però, lo ha impiegato a volte da mezza punta, qualche altra da terzo in un centrocampo piuttosto raffazzonato. Ecco perché il povero Vives in questa stagione non ha mai incantato. Contro la Roma dovrebbe giocare finalmente nel suo ruolo naturale. Dai suoi piedi e soprattutto dalla sua testa dipenderà forse l’esito dell’incontro. Dovrà battersi con tutto se stesso l’ex del Lecce per non sfigurare di fronte a un certo Daniele De Rossi. Se poi provasse con maggiore convinzione a tirare da fuori … vi ricordate la favola del brutto anatroccolo? DALLE STELLE ALLE STALLE - A Roma sponda giallorossa il calcio è un’altalena su cui i tifosi vanno a spingere i loro beniamini. Quando le cose non vanno per il verso giusto, patapùmfete! Il rumore per la caduta lo sentono fino in Cina: perché? Uno dei difetti congeniti dei romanisti è la volubilità. Non ci sono mezze misure. Escluso Totti, unanimemente considerato una specie di Dio sceso in terra, e De Rossi, il suo delfino, gli altri componenti della rosa si rassegnano a vivere un’esistenza da ricchi precari. Una buona prestazione? C’è chi propone una statua in Campidoglio oppure una medaglia celebrativa. La volta dopo il nuovo idolo gioca maluccio? Pollice verso! Gli stessi che peroravano la beatificazione si mobilitano sugli spalti, al lavoro o al bar con gli amici per imprecare contro quei dirigenti così incapaci da aver fatto indossare la gloriosa casacca giallorossa a un altro inetto. Povero James Pallotta, bostoniano doc che crede di aver investito in un normale club professionistico di serie A: la gratitudine e la coerenza non abitano certo nella città eterna! Carpe diem, cioè goditi la vita di giorno in giorno: lo diceva qualche secolo fa un certo Orazio … IL MITICO SCOPIGNO – 12 aprile 1970, esattamente 43 anni fa, ci fu l’ultimo vero miracolo nel calcio italiano: lo scudetto, l’unico nella sua storia, lo conquista il Cagliari battendo 2-0 in casa il Bari. Chi erano i protagonisti di questa leggendaria impresa? Albertosi; Martiradonna, Mancin; Cera, Niccolai, Tomasini; Domenghini, Nenè, Gori, Greatti, Riva. Ma soprattutto il loro allenatore: un introverso friulano di nome Manlio Scopigno. Tecnico raffinato ma soprattutto fine psicologo, capace di trasformare un piccolo club dell’allora sperduta Sardegna in una formazione che giocò per almeno un quinquennio il miglior calcio d’Italia. Il suo capolavoro? Fu quando nel 1969 rinunciò a un certo Roberto Boninsegna in cambio del duo Domenghini-Gori. Il primo dinoccolato ma con due polmoni a mantice, l’altro piccoletto ma pronto a sacrificarsi per far risplendere le doti di straordinario realizzatore del mitico n° 11 Rombo di Tuono Gigi Riva. Quelli della mia generazione sanno a chi mi riferisco: Riva per noi è un totem che non si discute, lo si ama a prescindere! Ma torniamo a Scopigno. Parlava poco con tutti: giocatori, tifosi, dirigenti. Coi giornalisti poi silenzio di tomba o quasi! Nella festa che coinvolse tutta l’isola quel 12 aprile di 43 anni fa ci fu solo un piccolo incidente. Mario Brugnera, fedelissimo del club, in quel campionato dello scudetto giocò pochissimo. Mentre festeggiava col resto della squadra un giornalista piuttosto invadente ne chiese la ragione a Scopigno. Il mister chiese silenzio attorno a sé, squadrando dal basso in alto l’impertinente, e così gli rispose: “Brugnera lo porto con me in panchina perché ha il culo stretto e così stiamo tutti più comodi!”. Renato Tubère
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