columnist

L’insostenibile grigiore di chi non sa amare

Marco Cassardo
Il Toro nella Testa / Torna la rubrica di Marco Cassardo, le sensazioni dopo l'ultima grande delusione in casa contro la Spal

La mia passione per il Toro ha contribuito a rendermi più difficile la vita. Il calcio è ben di più di un pallone che rotola, il calcio è appartenenza, è la storia della propria esistenza, dell’infanzia, del quartiere in cui si è cresciuti, della propria famiglia. Per me Toro significa mio padre, mio fratello che giocava nella Primavera del Torino con Novellino e Garella, gli sfottò inflitti ai compagni di classe bianconeri il lunedì mattina. Il Toro è quella meravigliosa domenica di maggio e cielo azzurro e settantamila bandiere granate che mi accolse undicenne sugli spalti del Comunale un paio di ore prima dello scudetto. Il Toro non c’entra nulla con schemi e punti, per me il Toro è il Filadelfia le mattine in cui “tagliavo” da scuola; è zio Nando che, quando il Toro perdeva, brodino, nanna alle otto e obbligo imposto a tutta la famiglia di tenere televisione e radio spenti fino al giorno dopo per non incappare in qualche programma che gli ricordasse la sconfitta; il mio Toro è Corso Traiano, i balconi imbandierati a festa dopo i derby, centinaia di metri granata che dalla Fiat Mirafiori si srotolavano fino a Piazza Bengasi. Ancora adesso che ho scavallato i cinquanta e vivo a Milano, il Toro è calcio ma è soprattutto il rito della partita, le passeggiate in zona stadio, un modo per tenere vive amicizie, per rimanere ragazzo, per non allontanarmi definitivamente dalla mia amata città.

La mia passione per il Toro ha contribuito a rendermi più difficile la vita perché, a parte qualche momento di godimento assoluto (penso a Toro-Real Madrid, al derby vinto all’ultimo minuto con Serena, all’epica rimonta nel derby dei 3 minuti e 40 secondi, al momento del fischio finale del vergognoso Sguizzato che ci consegno la Coppa Italia del 1993), ho quasi sempre sofferto delusioni atroci. Inutile infliggervi la mia personale via crucis, è la stessa di tutti i tifosi della mia età. Si va dallo scudetto rubato a Genova nel 1972 alla stagione dei 50 punti; dalle tre finali consecutive di Coppa Italia perse a cavallo tra gli anni 70 e 80 allo spareggio Uefa contro i gobbi nel 1988; dalle atroci eliminazioni europee contro Borussia, Stoccarda, Bastia e Tirol al palo di Dorigo e alle retrocessioni in Serie B, dal rigore di Cerci agli innumerevoli derby persi all’ultimo secondo. Lascio fuori da questa carrellata la traversa di Sordo ad Amsterdam perché si tratta di un lutto che, a distanza, di 27 anni, non ho ancora elaborato. Niente da fare; nella mia anima quella traversa rimbomba ancora. E’ una ferita non rimarginabile, mi sono rassegnato.

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La mia passione per il Toro ha contribuito a rendermi più difficile la vita, ma ho “vissuto”, mi sono emozionato, ho pianto, ho maledetto gli angeli e i diavoli e se tornassi indietro non cambierei di una virgola tutto ciò che nel corso del tempo ho fatto per accendere e poi alimentare questa passione. Forse state annuendo leggendo queste righe, sono affermazioni che conoscete a memoria, potreste scriverle quanto me. Voi tutti meno uno. Uno solo non sarebbe in grado né di scriverle né di capirle: Urbano Cairo, un uomo che non ha minimamente in mente cosa significhi amare visceralmente una squadra di calcio. Questa mancanza di amore, alla luce del suo pietoso quindicennio al timone del Torino, si sta rivelando il limite più grave. Certo, non lo si può definire né un fenomeno di generosità né di lungimiranza, ma la mancanza di empatia e della capacità di provare sentimenti “forti” lo ha reso uno delle figure più grigie dell’ultracentenaria storia granata. Il problema non è la mancanza di risultati sportivi (o meglio, non è solo la mancanza di risultati sportivi). La specificità della tifoseria granata sta nel preferire un Filadelfia completato in ogni sua parte a un piazzamento Champions, nell’esaltarsi molto di più ad immaginare un catino tutto nostro con 35mile anime granata a picco sul campo che vedere Cristiano Ronaldo in squadra.

Cairo è giunto al capolinea. La farsa (pericolosissima) dell’esperimento sociale congegnato con la questura è la goccia che ha fatto traboccare il vaso in quanto (e se ne sono accorti in tutta Italia vista la vicinanza che tutte le tifoserie hanno manifestato nei nostri confronti) ha certificato per l’ennesima volta che il presidente, a livello calcistico, è totalmente privo di quella che Daniel Goleman definisce “intelligenza emotiva”. Game over: non gli resta che mettere in vendita il Torino e dare mandato a una società di intermediazione finanziaria di trovare un acquirente. Se non arriverà nessuno, ce ne faremo una ragione, ma al momento Cairo non ha alternative. Non è più credibile. Nessuno crede più alle sue favole, nessuno tiene in minimo conto quella dozzina di frasi “precotte” che somministra agli astanti da quasi quindici anni. Nessuno crede più al suo progetto perché non ne ha mai avuto uno; nessuno crede più alla favoletta del “fatturato troppo basso per poter competere” perché gli strepitosi risultati dell’Atalanta e della Lazio lo hanno “sbugiardato” più e meglio di chiunque di noi avrebbe potuto fare.

La società di Percassi ha già incassato 30 milioni dalla Champions (e il bello deve ancora venire perché presto disputerà gli ottavi) e la Lazio, quest’anno in lotta per lo scudetto, ha conquistato il suo sesto titolo da quando, nel 2004, è passata nelle mani di Lotito (personaggio discutibile e tutt’altro che simpatico, contestato a Roma per anni a causa della sua “tirchieria”, ma comunque in grado di far godere a ripetizione il popolo laziale). Nessuno crede più a una sola frase del presidente Cairo, dalla “squadra difficilmente rinforzabile” alla “difesa più forte della Juve” passando per la “volontà di ispirarsi a Ferruccio Novo”.

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Il ributtante finale di 2019 è stato tale da chiudere la porta a qualsiasi tipo di indulgenza. L’esperimento sociale più di ogni altra cosa, ovvio, ma anche un settore giovanile che inizia a scontare la mancanza di investimenti significativi, i risultati della prima squadra, l’ostinazione quasi provocatoria nel volere insistere su Mazzarri (come mai questa insistenza feroce su un allenatore che perde puntualmente contro l’ultima in classifica, propina il peggior calcio della Serie A ed è inviso a tutto la tifoseria? Cairo ha bisogno di un capro espiatorio con cui dividere gli improperi? Teme che un nuovo mister gli chiederebbe di intervenire sul mercato? Non vuole spendere soldi per un nuovo stipendio? Non vuole toccare un organigramma societario in cui l’unico criterio di merito è considerato l’aziendalismo?). E poi l’agonia Robaldo, il disinteresse per il Filadelfia, la totale assenza di un progetto per lo stadio di proprietà, la mancanza di un direttore sportivo e di un direttore generale operativi, il suo ostinato rifiuto a mettere la faccia e a raccontarci qualcosa di diverso dai ritornelli a cui ormai non crede più nessuno.

Insomma, è finita ogni indulgenza perché il popolo granata vuole a tutti i costi dire basta a un letale mix di mediocrità e dabbenaggine che, anno dopo anno, sta erodendo non solo il numero di tifosi, ma anche il fegato, la pazienza e l’entusiasmo di chi non si rassegna e cedere. Concludo augurando a tutti i lettori buone feste nella speranza che il 2020, dopo lustri di grigio, ci porti, finalmente, qualcosa di granata.

Marco Cassardo, esperto in psicologia dello sport e mental coach professionista. E’ l’autore di “Belli e dannati”, best seller della letteratura granata.

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