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Il Toro non morirà
“Noi tifosi del Toro… sempre ad un passo
dal cielo ma con un nodo in gola”
da Twitter
Ci sono momenti lievi e intensi in cui la vita si china per tirarti su e portarti a scoprirne il senso, ti accosta alla grandezza così tanto vicino da rimanerne disorientato. Piacevolmente disorientato. Mi è capitato qualche anno fa, durante la conferenza stampa di un mio lavoro, di andarmi a sedere vicino ad Ennio Morricone. Il mio mondo improvvisamente si è silenziato e immobilizzato, in una sorta di surplace dell’anima difficile da spiegare. La grandezza è così, prima ti paralizza poi ti costringe a fare un viaggio con la mente e con il cuore. La speranza è quella di essere, alla fine di questo viaggio, una persona migliore, o quantomeno riappacificata con il mondo. C’è sempre qualcosa che ci specchia, e nel riflesso della nostra immagine esiste quell’attimo in cui acchiappiamo la nostra vita e la vita stessa.
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Le note del “Maestro” ora mi risuonano nella mente, e la sequenza della gang di adolescenti del Bronx di “C’era Una Volta in America” che corrono per non farsi prendere dalla “Legge”, e divenire così improvvisamente adulti, mi ritorna in mente prepotente. Uno di loro ferma la sua foga davanti ad una vetrina di un negozio, e specchiandosi dentro di essa forse per la prima si vede in tutta la sua miserabilità. Sergio Leone, tra i più geniali registi della nostra storia, lo colloca in un surplace esistenziale e in un istante, lo avverti negli occhi dell’adolescente, gli fa scegliere cosa sarà il suo futuro. Posso dire di essermi per la prima volta veramente specchiato quando, in un caldo pomeriggio di primavera, vidi in tv un racconto sulla storia del “Grande Torino”. Il cuore si sospese, avendo cura di non staccarsi dalla vita ma di farmela “attenzionare” senza distogliere nemmeno per un attimo la mente e l’anima. E più mi specchiavo in quella storia, e più mi riconoscevo. Non come in una foto, scattata di fretta e svogliatamente, di una carta d’identità, ma piegando ogni mia espressione in delle pieghe del volto che un giorno sarebbero diventate rughe.
Nella prima scena de “Il Padrino” si vede un uomo stempiato, di mezza età, con baffetti neri curati, e vestito “a festa” per mostrare deferenza a Don Vito Corleone, che spiega al suo boss cosa gli ha dato l’America. La fotografia della pellicola lo inquadra attorniato dal “nero”, solo dal “nero”. L’attenzione deve essere concentrata esclusivamente sulle sue parole e sui dettagli in movimento del suo volto. Quando sarò anziano immagino di essere io un riquadro circondato dal “nero” mentre racconterò il mio amore per il Toro. “No, non ho scelto il Toro perché vinceva. Ero un “pupo” quando mi sono innamorato di lui. Non capivo ancora niente, semmai ho capito qualcosa. Il sole meridionale e mediterraneo era così forte che a me pareva spaccasse anche il balcone, ma ad un certo punto non lo avvertivo più. “Bacigalupo, Ballarin, Maroso”, recitava la voce dalla tv, ed io lì, davanti al piccolo schermo tv, con la bocca spalancata. Ho scoperto dopo che non si vinceva mai, ma non importava”. Ecco, potrei dire una cosa del genere raccontando del mio rapporto con la squadra. Ma non lo vorrei dire con un tono di frustrazione, perché il Toro non mi ha mai frustrato. Nemmeno nei lunghi anni della Serie B. Nemmeno con i presidenti più improbabili( e Dio sa, quanti ne abbiamo avuti). “Vincere e vinceremo” è roba da Benito Mussolini, da sogno di dare un Impero ai Savoia, da mentalità coloniale.
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Il Toro non c’entra niente con tutto questo, in bacheca ha altri valori rispetto a “quegli altri”. L’ho imparato per bene in seguito, perché all’inizio non sapevo, come ho detto ero un “pupo” collocato a più di mille chilometri di distanza da Torino. C’era “Tuttosport” a tenermi collegato con il mio piccolo mondo, e qualche volta la tv. E niente altro. Per anni non ho mai conosciuto un tifoso del Toro, e credo di aver provato la stessa sensazione di quando si è figli unici. Impotenti nell’esserlo. Quando ho visto per la prima volta il “Comunale”, oggi “Olimpico Grande Torino”, ho provato la stessa sensazione degli emigranti della “Leggenda del Pianista sull’Oceano”(il film di Giuseppe Tornatore), quando dalla tolda della nave vedono per la prima volta, attraverso la foschia che si dirada, la “Statua della Libertà”: emozione ed entusiasmo. Perché uno stadio non è solo fonte di ricavi, ma è soprattutto un simbolo, una bussola per ritrovare l’orientamento di un amore. Non capire questo è uno degli errori più gravi che molti proprietari di club calcistici stanno commettendo. Lo stadio è un altro specchio su cui ci si riflette. Chi non è mai stato lontano, non può davvero capire cosa si prova quando si è vicino. Vidi il Toro dal vivo per la prima volta nella mia vita in un pomeriggio anonimo e dal cielo coperto, in un altrettanto anonimo stadio del sud. Quando vidi spuntare la prima maglia Granata dal sottopassaggio è stato come quel giorno quando Morricone mi si venne a sedere accanto. Era tutto troppo grande, troppo inverosimile, troppo bello. Tale fu l’emozione che di quella partita non ricordo niente, solo la figura di Paolino Pulici, un “Ciclope” più alto e imponente di un “Ciclope”.
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Ho amato Pulici come un bel racconto che ti segna la vita, alla stessa stregua di una speranza con il potere ogni volta di portarti via con sé. Provo profondo dolore ogni volta che ascolto o leggo che il Toro non esiste più, che Torino non esiste più, che la sua industria non esiste più, e che la mia squadra, la mia “Statua della Libertà”, abbia cessato di destare l’interesse delle future generazioni perché non vince. Io sono il futuro realizzato di un bambino siciliano che ha scelto il Toro un pomeriggio di tarda primavera, senza essere spinto da nessuna suggestione di vittoria. Sono la prova vivente che il calcio, come la vita, non si definisce attraverso la vittoria. Questa deve essere il terminale di un abbraccio emotivo, che ti sorprende felice e non ossessionato. Ho amato da subito Torino perché è l’anima costitutiva del Toro, essa ti osserva con tutta la sua storia e ti ammonisce con severità di sperare e di non desistere mai. Non c’è tragedia o indifferenza dalle quali non si possa risorgere, e non c’è persona, per quanto potente e nichilista, che possa distruggere ciò che c’è sempre stato.
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Il “Filadelfia” e la Basilica di Superga c’erano anche quando non c’erano, erano una promessa destinata prima o poi ad accadere. Come si può non essere sedotti dalla grandezza? Come si può ignorare che esista?Undici maglie Granata che entrano in campo e il tempo si ferma, riuscendo a non andare né indietro e né avanti. Quel momento è inciso nelle pietre senza età, e continuerà ad esserci anche quando non ci sarò più, e io comunque sarò con lui, invisibile a tutto ma non ai miei fratelli e alle mie sorelle che davanti a quel momento continueranno ad esserci. Chi ama il calcio, chi ha capito davvero questo sport, sa di cosa sto parlando. Vorrei vincere, oh se vorrei vincere, ma non al prezzo di perdere quel bambino venuto su essenzialmente per non essere “quegli altri”. Non c’è prezzo giusto o futuro conveniente con il quale potrete comprare la mia storia, e non importa se “quegli altri” continueranno a sbeffeggiarmi. Quando vedo Superga, quando penso a Superga, la ragione va subito all’onore e il cuore al dolore. E in questo trovo ogni significato, e ogni destino. Il tempo si toglie il cappello davanti alla mia squadra, perché grande è la sua missione nella storia del mondo. Davanti a lei io mi specchio e mi specchierò sempre, come quel ragazzino di “C’Era Una Volta in America” di fronte alla vetrina del negozio. E in quello specchiarmi ogni volta troverò quel che devo trovare, in compagnia della mia eternità. E sarà una festa.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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