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Il Toro non può perdere, parola di Piedone

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Sotto le granate / Il racconto di un incontro e una conversazione davvero speciali
Maria Grazia Nemour

Mi concedono il privilegio di occupare il posto a capotavola, a sinistra si accomoda quel Piedone di Eraldo Pecci e a destra Franco  Migneco, che ha accudito la famiglia Toro – tra presidenti e calciatori – per almeno quarant’anni, una testa che è l’archivio storico di un mondo granata profondamente amato.

Tocco il braccio di Eraldo chiedendogli se si renda conto di essere una reliquia, ha fatto parte del Toro santo del ’75-’76, quello che vinse lo scudetto. L’ultimo.

Eraldo sorride – e continuerà a farlo per tutto il pranzo, anche quando mi racconterà che è a Torino per un funerale, per salutare Beppe Bonetto, volto fiero di un calcio di galantuomini, prima che di buoni giocatori – e dice che prova imbarazzo quando i nonni lo indicano ai nipotini e i nipotini si aspettano un prodigio. Almeno un coniglio dal cappello. Il miracolo lo ha fatto il Toro, quello del ’76.

Gli chiedo se allora, in quel campionato, si rendesse conto di far parte di qualcosa di grande, che avrebbe riempito i ricordi di quarant’anni di tifosi, ed Eraldo annuisce. Dice che nonostante la leggerezza – o forse proprio per quella – dei suoi vent’anni, capiva che i giocatori, insieme, stavano diventando qualcosa di più che la somma delle loro individualità, di partita in partita si amalgamavano in squadra. E la squadra, era sempre più intrisa del gusto della Società che la cresceva, e della Storia fotografata appesa ai muri, che la raccontava. La squadra, diventava Toro. I giocatori facevano Toro dentro e fuori dal campo. Se Pupi aveva il bambino con l’influenza, i compagni lo sapevano, sotto la doccia si informavano della febbre. La domenica sera c’era la pizza insieme. La moglie di uno era impareggiabile nelle lasagne, a casa di un’altra si mangiava la bagna cauda. Eraldo ride ricordando che il primo gavettone che fece da giocatore del Toro, fu per Castellini. E proprio Castellini, divenne il suo primo amico del Toro. Gli scherzi telefonici alle due di notte spacciandosi per gobbi, e al mattino tutti a ridere nel sentire Ciccio o Patrizio Sala raccontare la telefonata. La voglia di stare insieme era tanta, e più ci si fondeva in squadra, più quella voglia diventava una necessità. In campo, compagni così, sapevi sempre dove trovarli.

Gli chiedo se la ricetta per la trasformazione di uomini in Toro la custodisse Radice ed Eraldo mi spiega che il mister ebbe il grande merito di capire che negli anni settanta tutto si muoveva e si rivoluzionava, anche il calcio, che diventava totale, sull’esempio di quello olandese. Non si poteva stare fermi ad aspettare. Il Toro corse il rischio e fece la rivoluzione, diventò la squadra del pressing.

Eraldo e Franco hanno riempito il tempo di cinque antipasti raccontando le immagini di un Toro in bianco e nero, gli agnolotti li saltiamo, e la carne arriva in tavola mentre parliamo di campioni, quelli che dettano la storia al tempo. Eraldo dice che i talentuosi incontrati in tanti anni di carriera hanno in comune un aspetto. La tecnica, chiedo, la fisicità? Eraldo come al solito sorride. L’umiltà, risponde. “I grandi campioni con cui ho avuto l’onore di giocare, quelli veramente grandi, avevano in comune la voglia di migliorare, sempre. Non sentivano la necessità di primeggiare, non ne avevano bisogno. Non so se sono stato fortunato io, a incontrare i migliori, o se sono caratteristiche universali dei grandi”. Gli chiedo di farmi un nome solo, su tutti, e lui non ha esitazioni, “Dieguito”. Maradona? Sorrido io, questa volta. Eraldo annuisce. “Ha sempre avuto più ricchezza nel cuore che nel conto in banca. Al Napoli, il primo ad accogliermi – con un televisore tra le braccia – perché non mi sentissi solo, estraneo. Il primo con cui scherzare. Quello che cercavo per uno sfogo. Cose che fanno gli amici”.

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È ormai tempo di dolci. Al caffè glielo chiedo: “Eraldo, com’è che non giochiamo i mondiali?” Lui alza le spalle prima di sorridere qualcosa che gli sembra ovvio: “Ma perché le scuole calcio sono a pagamento e non tutti i ragazzini che hanno voglia di giocare ci possono andare. La voglia di rincorrere il pallone ti sale in strada, non a stare in ciabatte sul divano. E poi l’investimento sugli allenatori. Gli allenatori migliori non servono alle prime squadre – lì ormai non possono fare più una grande differenza, sono uomini già costruiti quelli che hanno davanti – quanto alle formazioni dei piccoli. È nei ragazzini che si individua l’istinto e si lavora per valorizzarlo, affinarlo. È in loro che un allenatore motivato può incidere, individuando potenzialità e trasformandole con tanta corsa e sudore in promesse. E tra tante promesse, qualcuna viene mantenuta.

Il Toro non può perdere è il titolo del libro che Eraldo scrisse qualche anno fa, ripercorrendo i movimenti, gli scatti e gli assestamenti che portarono il Toro a vincere lo scudetto. Gli domando perché il Toro non sia più così e lui ride, forse non fanno abbastanza gavettoni, dice. Diventando serio aggiunge: “Capitano dei momenti perfetti nella vita, dove ogni cosa è giusta e serve, anche la sconfitta. E tu la lezione la capisci, impari, migliori. Capitano dei momenti in cui le persone trovano un equilibrio stando insieme, e tutte vogliono farne parte del gruppo perché ne avvertono la grandezza. In quei momenti lì, succede. Succede

che il Toro non può perdere”.

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.

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