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Io, Marie-Jo, il derby e Marsiglia
Marsiglia è città complicata ma dannatamente affascinante.
Crocevia di culture, razze, contrasti forti, violenti, sanguigni.
Una città difficile ma piena di umanità.
Un porto. Un miscuglio di persone diverse e provenienti da tutto il Mediterraneo, che a loro volta hanno arricchito Marsiglia con le loro vite e le loro esperienze.
Marinai, operai, pescatori, venditori ambulanti.
Napoli, Genova, Valencia, la Grecia, gli slavi e poi, Algeri, Tunisi, l’Africa.
Marsiglia è tutto questo e anche di più.
Marsiglia è una città da derby, non fosse che l’unica squadra che esiste a Marsiglia è l’OM, l’Olympique.
C’è solo l’Olympique che come recita il suo storico motto, è da sempre Droit au but: dritti al punto.
Se non siete mai stati a Marsiglia, andateci.
È una città molto granata, se mi passate l’analogia.
E in questa culla del Mediterraneo, il Toro è stato protagonista, nel 1937, nel battesimo del Velodrome, per la prima storica partita dell’altrettanto storico impianto.
Dura, contraddittoria, Paperinesca (mentre Parigi è Gastone, ovviamente), innamorata delle sue bellezze che ama condividere.
Marsiglia che come Torino, non è città per turisti.
Lo scrittore Jean-Claude Izzo disse: A Marsiglia non c'è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c'è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma atipico dove l'eroe è la morte. A Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere.
Battersi anche per perdere.
Schierarsi.
Se a Marsiglia, calcisticamente (ma non solo) ci si schiera per l’OM, contro Parigi, a Torino, da sempre, si sceglie di stare di qua con gli indiani o dall’altra con i cowboys.
Qui, ci si schiera per davvero, a maggior ragione, quando c’è il derby.
E sabato, sarà di nuovo ora di farlo per stare da questa parte o dall’altra.
Per presentare la partita che non ha bisogno di presentazioni, torniamo indietro al 2002, anche se l’antefatto è del 1997.
Al cinema esce la delicata e tenera pellicola, Marius et Jeannette, una storia d’amore tra poveri che vivono nel suggestivo quartiere popolare dell’Estaque, a Marsiglia.
Scritto come una piccola parabola su chi ha poco e niente, l'opera del regista Marsigliese, Robert Guédiguian è un film d'altri tempi.
Non c’è retorica, c’è tanto di Marsiglia con le sue tinte calde, belle e mediterranee che scaldano anima e cuore, ci sono amore e umanità.
Il film, godibilissimo, lo vidi al cinema Nazionale, in Via Pomba e tuttora ne conservo un piacevole ricordo.
Guédiguian fu un nuovo feticcio del cinema francese indipendente, una bella sorpresa.
Così, quando a distanza di qualche anno, iniziarono a uscire altri suoi film, fu naturale andarli a vedere.
Purtroppo quella poesia trovata in Marius et Jeannette, si perse e i successivi tre film furono delle mezze delusioni.
Nel 2002, però, esce Marie-Jo e i suoi due amori e decido di andarlo a vedere.
Quando?
Il 17 novembre 2002.
È una domenica.
C’è un piccolo dettaglio che lascio, qui a margine: quella sera, al Delle Alpi, c’è il derby.
Sono abbonato, ma gli abbonamenti non valgono.
I miei amici hanno comprato il biglietto e hanno provato a convincermi, nonostante la mia ritrosia.
“Non puoi saltare il derby. Prendi il biglietto e andiamo.”
Decisi di ignorare gli inviti, io quel derby non lo volevo vedere.
Così, dopo aver declinato l’invito allo stadio e quello di amici per vedere il match in tv, alle ore 19.50 circa di una fredda domenica novembrina, prendo la vecchia Alfa di papà e mi dirigo verso il centro.
Lascio a casa il cellulare, non passo a prendere la mia fidanzata (che mi sapeva allo stadio), inserisco il frontalino dell’autoradio e ascolto un cd.
Niente stazioni radiofoniche, niente notiziari, cronache, sms, niente contatti che avrebbero potuto svelarmi il risultato del match.
Attraverso la città senza troppi patemi, parcheggio nei pressi di Piazza Bodoni.
In giro non c’è nessuno.
La gente o è a casa o è allo stadio, penso.
Entro nel foyer del cinema e, in biglietteria ci sono solo io.
Il film deve essere brutto. Oppure, c’è il derby.
La sala presenta larghi vuoti, qualche coppia attempata e un paio di ragazzi giovani.
Mal contati non arriviamo a quindici persone.
Guardo l’orologio. Sono le 20.29.
Tra un minuto inizia tutto.
Il film dura 124 minuti, l’ho scelto anche per questo motivo.
Buio in sala. Titoli.
Qualcuno parlotta nella sala.
Come d’abitudine, non sopportando le chiacchiere, lancio uno ssssstttttt.
È una coppietta di ragazzi che insiste ma appena il film inizia per davvero, si tacciono.
Mi guardo intorno, sono l’unico scompagnato.
Mi era già capitato di vedere da solo qualche proiezione nei festival, ma così, mai.
Realizzo che il titolo del film è Marie-Jo e i suoi due amori. Ancora oggi, mi confondo i suoi due amori, con i suoi due amanti.
Ariane Ascaride appare sullo schermo, è la musa di Guédiguian, insieme ad altri attori fa parte di un cast di fedelissimi del regista.
Guardo l’orologio. Sono le 20.35.
Mi sembra passata un’eternità.
Cerco di concentrarmi sullo schermo e sul film, ma non ci riesco.
Mi immagino Davids che sgranocchia Vergassola, Nedved che si vendica con un avversario che gli ha fatto un tunnel, ah, no, questo è successo per davvero ma era la Partita del Cuore.
E poi Del Piero, Camoranesi e chi più ne ha più ne metta.
Il film va avanti. Io mi guardo intorno.
Resto a fissare l’insegna luminosa, quella verde, dell’uscita di sicurezza.
Prendo un chewing-gum. Poi, appena finito, bevo dell’acqua.
Menta più acqua. Un tornado.
Sono passati altri quattro-cinque minuti.
Del film non capisco molto, non riesco a seguirne la trama.
C’è Marsiglia. Quello sì.
Uno dei ragazzi guarda il cellulare e annuisce.
È lì con una ragazza, probabilmente non doveva essere qui, ma allo stadio.
Il tempo non passa mai.
Vado in bagno. Guardo l’orologio ancora qualche volta.
L’unica cosa che non riesco a guardare è il film.
Cambio posizione sulla poltrona del cinema. Una, due, tre, quattro, cinque, sei…
Sono. Irrequieto.
Intanto venticinque minuti sono andati.
Provo a immaginare il risultato del match. Magari ci siamo destati proprio oggi dal torpore di una annata disgraziata.
Magari loro sono distratti, svogliati, stanchi.
L’immagine di Davids che corre per il campo usando come stuzzicadenti uno dei nostri a turno mi spaventa.
Saranno umani anche loro, no?
No.
E l’arbitro? Sarà una direzione equa?
Sorrido proprio mentre Marie-Jo, piange.
Ma perché piange?
Chissà se li stiamo facendo piangere?
Mi viene in mente il sergente Lo Russo, di Mediterraneo, che cerca di intuire le notizie dalla radio: “Gli stiamo facendo un culo così…”
Anche io sono senza radio, tagliato fuori dal conflitto bellico, in questa isoletta di via Pomba, e dico, Diavolo porco, usciamo da qua e andiamo a vedere la partita.
Marie-Jo continua a piangere.
E continuo a chiedermi, ma questa oltre ad essere Marie-Jo, perché piange sempre?
Il primo tempo sta finendo.
Ho consumato l’orologio e inizio a battere nervosamente i piedi sul pavimento.
Ho un grande vuoto allo stomaco.
Ho mangiato poco.
Considero il recupero e decreto che le squadre siano negli spogliatoi.
Penso che questo momento sia un modo per migliorare la propria persona, da un punto di vista interiore.
Ma quale zen, ma quale yoga.
Il derby ti tempra davvero.
L’intervallo o presunto tale, termina.
Monterò avrà staccato una gamba a Ferrante e Davids la starà usando per grattarsi la schiena.
Ulivieri sara già stato espulso almeno una volta.
Non ho capito cosa faccia Marie-Jo, ma anche i suoi due amant…amori, non scherzano.
Non ci sto capendo un tubo.
La mia mente vaga e aleggia sempre sul Delle Alpi.
Siamo al sessantesimo, o meglio dovremmo essere lì.
Marie-Jo inizia a parlare di suicidio.
Perché? Per i suoi due amanti, amori, insomma per questi due, di cui pare essere innamorata.
Chissà la Maratona. Chissà come stiamo giocando anche se poi mi ricordo che in campo ci potrebbe essere Magallanes, un misto tra Gento, Best e Meroni e quindi cosa potremmo temere?
Continuo a fissare l’orologio.
Si avvicina il momento della fine.
Sono nervoso e non è la prima volta.
O meglio, non è quella prima volta. Comunque sono stato nervoso altre volte. (Cit.)
Il ragazzo guarda di nuovo il cellulare e annuisce soddisfatto.
È granata, è dei nostri.
No. È bianconero ed è soddisfatto.
Lo guardo, provo ad immaginare da che parte sta, forse da nessuna.
Dovrebbe essere l’ottantesimo. Anche qualcosa in più.
Marie-Jo deve scegliere. Finalmente ho capito cosa deve decidere, e non vorrei essere nei suoi panni.
Deve scegliere, deve schierarsi, deve amare.
Ho perso gli ultimi venti minuti di film ma la partita sta per volgere al termine.
Non ho mai abbandonato né una sala né uno stadio prima d’ora e non ho intenzione di farlo ora.
La partita è finita. Almeno credo.
Per il film devo pazientare.
Però oramai è andata. Rien ne va plus.
Avrà giocato Di Vaio? E Salas? Speriamo che un eventuale rigore lo abbia tirato lui.
Nel frattempo, chissà se quel pallone tirato dal cileno nel derby del 3-3, è tornato sulla Terra.
Arrivano i titoli di coda. Li leggo velocemente, chissà che cavolo è successo a Marie-Jo e i suoi due amanti, amori. Insomma a quei due.
Ecco, sarà finita due a zero, o due a due, o due a cinque, sei, sette…
Non riesco a prevedere il risultato.
Si accendono le luci in sala, la gente esce alla spicciolata, io corro per evitare di intercettare uno antesignano dello spoileratore seriale.
Corro alla macchina. Il deserto sarebbe più affollato.
Entro in auto, cd. Salvo.
Non so nulla.
Metto in moto e torno verso casa.
Non vedo vessilli granata, né bianconeri.
È finita in parità. Sì, dai, no news, good news.
Attraverso la città senza scoprire il risultato.
Parcheggio in cortile, speriamo di non incontrare nessuno che porti giù il cane, che stia tornando a casa dallo stadio.
La luce del salotto è accesa.
Papà starà guardando la domenica sportiva.
Anche l’ascensore ci mette una eternità.
Chiave, toppa, due giri.
Entro in casa.
Papà smoccola.
Mamma: Come era il film?
Io: Cosa abbiamo fatto?
Papà: Quattro a zero.
Io: Come quattro a zero?
E qui subentra una delle fasi tipiche del mio vivere le partite.
Dura un istante. Abbiamo vinto!
Poi la razionalità prende il sopravvento.
Ok, perso.
Dalla porta del salotto, guardo gli highlights.
Una mattanza.
Davids ha usato il nostro centrocampo come straccio per i pavimenti di casa sua.
Del Piero ha inventato un gol.
Di Vaio ha fatto il suo, e Nedved ci ha simpaticamente purgato.
In silenzio, vado in camera e mi siedo sul letto.
È l’unico derby casalingo che ho perso negli ultimi trent’anni e continua ad esserlo.
Chissà come è andata a finire con Marie-Jo?
Quel film non l’ho più rivisto, come gli highlights di quella partita.
Adesso vado in letargo e mi risveglio domenica mattina.
Voi guardate la partita e schieratevi.
Fortemente. Schieratevi, fortissimamente.
Schieratevi come si fa a Marsiglia.
Come Marie-Jo, Izzo e i suoi personaggi, Guédiguian.
E andate a Marsiglia, la città più granata che io conosca.
Dopo Torino.
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