L’ IFFHS - International Federation of Football History and Statistics - e la rivista specializzata Four-Four-Two sono unanimi nel considerare, nei loro rispettivi ranking, miglior portiere di tutti tempi il leggendario “Vratar’” sovietico Lev Ivanovic Jašin, Pallone d’oro 1963. Campione Olimpico 1956. Campione d’Europa 1960. Alle sue spalle, su un podio ideale figurano Gordon Banks e Dino Zoff. Al quarto posto Gigi Buffon. Campioni del Mondo 1966, 1982, 2006. Costruire una graduatoria dei migliori portieri di sempre - giocando con leggerezza sulla freccia del tempo - costituisce un mero esercizio di stile che puntualmente dimentica qualcuno, soprattutto in un’epoca come la nostra, povera di senso storico. Ai fini della completezza, volendo insistere nell’ immaginare una classifica dei migliori portieri, goalkeeper, arquero, gardien de but, fussballtorhüter, vratar’ all-time, all’appassionato che voglia considerare l’attività calcistica attraverso tutte le epoche risulta evidente una lacuna. Non aver considerato la prima metà del secolo scorso, e quindi dimenticato tre grandissimi interpreti del ruolo da inserire assolutamente nei primi dieci. In ordine di apparizione tra i pali, lo spagnolo Ricardo Zamora “El Divino”, l’italiano Aldo Olivieri e lo jugoslavo Vladimir Beara, “il ballerino”.


La Leggenda e i Campioni
Aldo Olivieri, “Gatto Magico”
Aldo Olivieri. Campione del mondo 1938 a Parigi. “So che l’eroe siete stato voi: avete salvato l’Italia”. Così Benito Mussolini volle congratularsi personalmente durante il ricevimento, a Palazzo Venezia, della Nazionale Campione del Mondo. E in effetti. 5 giugno 1938, Marsiglia, ottavi di finale, Italia-Norvegia 2-1 (1-0,0-1,1-0,0-0). “Al Vélodrome di Marsiglia ventimila antifascisti fischiarono -giustamente- il nostro saluto romano. Segnammo subito, poi crollammo. La Norvegia pareggiò a 7’ dalla fine. All’88’ mi venne incontro Knut Brynildsen. Calciò all’incrocio, andai a prendere la palla lassù, in cima. Ero arrivato a Bosco Chiesanuova -per dire dalla piana veronese fino in montagna, per un veronese. Prima di battere l’angolo, il norvegese chiese di sospendere il gioco, volle stringermi la mano, un tempo si usava così. Nei supplementari Piola fece 2-1”.
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E comunque Aldo Olivieri non era certo fascista: difendeva i pali della Lucchese allenata da Erbstein, un milieu decisamente antifascista. Una squadra con valori tecnici e umani profondi. C'era il mediano Bruno Neri, che rifiutò di fare il saluto romano ai tempi della Fiorentina e durante la Seconda guerra mondiale fu partigiano trovando la morte nell'eremo di Camogna, nell'Appennino tosco-emiliano. C'era Bruno Scher, istriano e comunista, che si oppose all'italianizzazione del suo cognome in epoca fascista e per questo finì presto ai margini del grande calcio. C'era Libero Marchini, altro oppositore del regime, che nel 1936 aveva osato farsi fotografare con l’atleta di colore Jesse Owens alle Olimpiadi. Di quella Lucchese esiste una bella foto, che ritrae l’allenatore Ernö Egri Erbstein in piedi, in mezzo ai suoi giocatori, seduti durante una pausa dell’ allenamento. A destra Olivieri con una bimba in braccio. In un viaggio a Lucca, se hai la passionaccia granata, nel sostare sulle mura che costeggiano il bellissimo giardino di Palazzo Pfanner, non puoi fare a meno di pensare che quello fu un percorso abituale di allenamento di Erbstein con i suoi atleti di allora, nel periodo dal 1933 al 1938.
Tre mesi dopo aver vinto a Parigi, chiamato dal suo mentore Ernö Egri Erbstein, Olivieri veniva ingaggiato dal Torino. “Egri sapeva tutto, anche come preparare un portiere. Era di una intelligenza eccezionale. Non lasciava nulla al caso e sapeva tutto di calcio. Sapeva spiegare la partita. Se lo ascoltavamo eravamo sicuri di vincere, lui ce l’ aveva già tutta nella sua testa. Vedeva un giocatore una volta sola e capiva tutto di lui. Sapeva di medicina, di chirurgia, di politica, di storia, di economia (aveva fatto il broker finanziario negli Stati Uniti), persino di astrologia”. “Ho giocato con Gabetto, Ossola e Menti, amici perduti a Superga, come Erbstein. Lasciai il Toro nel '42, mentre dal Venezia arrivavano Loik e Mazzola. Stavano per cominciare a vincere”. Al suo esordio al Filadelfia, contro la Triestina, Olivieri neutralizza due calci di rigore. Eccezionale portiere nel “Metodo”, che richiedeva di stare piuttosto tra i pali, titolare in granata per tre stagioni, farà posto ad Alfredo Bodoira, nella squadra che andrà ad adottare il “Sistema WM”.
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Secondo Gioanbrerafucarlo, Olivieri è stato il più grande portiere italiano di sempre: “Olivieri è senza dubbio il miglior portiere italiano: militando nella Lucchese, viene sempre bombardato a dovere. Vola forse un po’ troppo. Meazza sostiene che Ceresoli era meglio…alcuni anni fa. Adesso gioca a Bologna e non sempre soddisfa". “Non si era ancora visto un portiere così allenato a volare come un saltimbanco e coraggioso come un guerriero greco. Veronese era costui, con certi occhiacci randagi in perenne ricerca, quasi nevrotico. Un po’ come Silvano Martina molti anni dopo. Con Olivieri siamo al portiere del tormento e dell’ imparabile. Per dire di esecuzioni fisiche straordinarie”, ha scritto Vladimiro Caminiti. Fu chiamato anche “Calotta d’argento”: durante un Padova-Fiumana nel ‘33, un’uscita spericolata su Andrea Gregar gli causò la frattura del cranio. A guarigione avvenuta dopo una trapanazione, Olivieri riprese a giocare e a rischiare, contro tutti i pareri espressi dai medici. Mentre sfogliamo la sua coraggiosa meravigliosa vita di portiere, ci vorrebbe in sottofondo la musica di “Nuvolari” di Lucio Dalla. Medesimi anni, stesso ardore agonistico, stesso coraggio e sprezzo del pericolo. Un veronese e un mantovano, terre vicine, fucine di campioni.
“Vittorio Pozzo aveva voluto che mi allenassi con Arturo Maffei, campione di salto in lungo, devo a lui la mia esplosività fra i pali. A piedi uniti, con un balzo, toccavo la traversa con la spalla”. Ancora dai ricordi di Aldo Olivieri, quando, diciassettenne, militava nell’Audace di San Michele Extra (dov’era venuto al mondo, il 2 ottobre 1910; en passant, stesso luogo d’origine e stessa squadra di Mario Corso, “il piede sinistro di Dio” trent’anni dopo; terra fertile d’elezione): “Abitavo a duecento metri dal campo dell’Hellas Verona. Mi allenavo nei pressi del lanificio Tiberghien -chi scrive ha avuto il destino di diventare collega, e di apprezzarne le doti, di un discendente di quella prestigiosa dinastia industriale del Nord della Francia- Andai a buttare un occhio agli allenamenti, era un martedì. In porta giocava un ragazzo di vent’anni, Guido Masetti (poi campione d’Italia con la Roma 1942, terzo portiere ai Mondiali ‘34 e ‘38). Si esercitava facendo battere il pallone contro un muro, un muro irregolare, di ciottoli, i rimbalzi non erano mai uno uguale all’altro, bisognava aver riflessi da felino. Domani provo anch’io, mi dissi, e cominciai. Portai il mio pallone sullo stesso muro, ma dall’altra parte, sull’esterno, ogni giorno. Spericolato. Gli inglesi mi odiavano. Il mio stile, la mia idea del ruolo. Ero spettacolare, sì. In uscita sui piedi di un attaccante, mai tirato indietro. Sapevo bloccare la palla in presa volante come nessuno al mondo”.
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Ancora un aneddoto per capire che portiere fosse Olivieri: A Praga gli Azzurri non avevano mai vinto. 23 maggio 1937. Cecoslovacchia - Italia 0-1. Gli attacchi cecoslovacchi sono sterili tranne uno: tiro angolato di František Kloz, respinta di Olivieri che non si capisce bene come ci sia arrivato, colpo di testa a botta sicura di Jan Melka e ancora respinta di Olivieri che da terra si è rialzato in un attimo. D’altronde se lo chiamano Gatto Magico ci sarà un motivo. Allenò l’Internazionale nel biennio 1950-52, prima che gli subentrasse il dottor Alfredo Foni: dal portiere al terzino destro Campioni del Mondo 1938, per vincere due scudetti con Lorenzi ed il mio conterraneo mandrogno Gino Armano, di Litta Parodi. “Un giorno, quando sono all'Inter, mi capita di incontrare il grande Alfredo Binda. Mi faccio coraggio e gli domando se avesse mai forato sulle strade di Verona. Mi rispose che sapeva di certi lanci dei chiodi, perciò si metteva nella scia dei corridori di casa, di Bresciani e dei Pancera”.
Nel 1953 lo chiama l'avvocato Gianni Agnelli nel suo studio. “Quanto vuole per allenare la Juventus?". Olivieri ci pensa un attimo: "Sa, avvocato, adesso guadagno 60 mila lire, avrei piacere di guadagnarne 80 mila". L’Avvocato obietta, arrota la erre per rispondergli: "Veda, Olivieri, io con 30 mila lire trovo un ingegnere che mi fa un'auto nuova". "Avvocato prenda un ingegnere e lo metta sulla panchina della Juve". Agnelli ingaggiò Olivieri per il biennio a venire. In vecchiaia, Olivieri “riceveva” i giornalisti al Lido di Camaiore. A lui, veronese purosangue, la Lucchesìa era entrata dentro. E la signora Piera, viareggina, ne era stata la principale colpevole.
FVCG
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Gianni Ponta, chimico, ha lavorato in una multinazionale, vissuto molti anni all’estero. Tuttavia, non ha mai mancato di seguire il “suo” Torino, squadra del cuore, fondativa del calcio italiano. Tra l’altro, ha scoperto che Ezio Loik, mezzala del Grande Torino, aveva avviato un’attività proprio nell’ambito dell’azienda in cui Gianni molti anni dopo sarebbe stato assunto.
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