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la leggenda e i campioni

Eraldo Pecci. Come se avessimo vinto lo scudetto ieri pomeriggio

Eraldo Pecci ai tempi del Torino (foto ecorisveglio)
Torna un nuovo episodio de "La Leggenda e i Campioni", la rubrica di Gianni Ponta
Gianni Ponta

“Il Toro è storia. Il Toro è Superga, il Toro è Valentino Mazzola, il Toro è Gigi Meroni, il Toro è Giorgio Ferrini: se la mettiamo su questo piano è difficile trovare squadre che lo battano; se invece la mettiamo sui risultati degli ultimi anni, allora è diverso.

Amo tutte le squadre in cui ho giocato, come fossero altrettante donne. E ogni donna ha un profumo diverso. Quello del Toro? È il sapore del mito, della storia, dell'epos. Questo Vanoli non lo deve dimenticare. E neppure i giocatori che vestono quella maglia”.

Eraldo Pecci. Centrocampista di regia. Due scudetti persi in carriera per un punto a vantaggio della Juve. A Torino, campionato 1976-77 con lo Scudetto sul petto, 50 punti fatti su 60 disponibili (“tranquilli-disse allora al nostro Capitano Claudio Sala-se ne avessimo fatti 60, loro sarebbero arrivati a 61”); il secondo con la maglia della Fiorentina, campionato 1981-82.

“Non sono un patito delle vittorie, sebbene vincere sia meglio che perdere. Se non hai rimpianti, significa che ciò che dovevi fare lo hai fatto. Allora arrivare in volata con squadre come Juve, Milan e Inter, era dura. Quei due campionati con la maglia del Toro sono acqua passata: ormai Roma-Cartagine non si gioca più da un bel po’”.

Estate 1975. Ero al mare con amici a Pesaro. Prima di andare in spiaggia, un salto in edicola per comprare il quotidiano sportivo. Sul lungomare vendevano “Stadio”, la testata giornalistica sportiva bolognese, allora indipendente, successivamente fusa nel “Corriere dello Sport”.

In prima pagina: “Savoldi al Napoli”. E nel riquadro centrale:”Pecci al Torino per 850 milioni”. D’istinto pensai: stavolta è il nostro anno, se siamo riusciti a prendere uno così forte. E di andare in spiaggia non me ne importava più niente. Tanto, ero più bravo sui banchi di scuola che con le ragazze…

Gigi Radice, appena arrivato sulla panchina dei granata, chiedeva l’acquisto di un regista, da lui individuato nel centrocampista gigliato Merlo, che aveva allenato a Firenze.

Il Dottor Beppe Bonetto, architetto dell’operazione, aveva a sua volta sondato il mercato in tutte le direzioni, andando a trovare la migliore opportunità nell’acquisto dal Bologna del ventenne Eraldo Pecci, allora miglior regista italiano under 23, già in grado di calcare i campi della Serie A da un paio di campionati. Come ha ricordato Eraldo nel suo secondo libro dal titolo -Ci piaceva giocare a pallone- “a Bologna erano convinti che avessi la schiena a pezzi ed erano certi di aver rifilato una fregatura al Torino”.

Romagnolo, nato a San Giovanni in Marignano il 12 aprile 1955, segno zodiacale Ariete, Eraldo Pecci è stato un giocatore di un’intelligenza superiore. Ed è un uomo di un’intelligenza e una simpatia superiori. Inferiori solo alla sua ironia, nei confronti di se stesso, della vita, delle vicende del calcio viste con passione ma dando comunque il giusto peso alle cose.

È ancora l’adolescente che quando arrivò al Bologna dal “Superga” (nomen omen) di Cattolica e si ritrovò nello spogliatoio con Bulgarelli capitano-“Giacomino” divinità e padrone del mondo rossoblu- disse al massaggiatore: “Fai piano, perché è vecchio e potrebbe rompersi”. Bulgarelli quel giorno era in buona. E non solo lo perdonò, ma prese quell’incauto e talentuoso sbrinzone romagnolo sotto le sue ali protettive. Per dire cosa significasse imparare. Una domenica, tardo pomeriggio, la squadra del Bologna usciva in pullman da San Siro dopo aver impattato un prezioso pareggio. Eraldo faceva un po’ di casino con i compagni. Bulgarelli si rivolse a lui con poche sentite parole:”Ricordati che ti capiterà poche volte di uscire da qui con dei punti…”. Esemplare lezione di calcio e di vita.

“Tèla chi la sciura Maria”, così lo accolse Gigi Radice in ritiro, estate 1975, valutandone a occhio il profilo di atleta. Lo allenava a Courmayeur, spesso accompagnato da Giorgio Ferrini, con tuta e sovrapantaloni.

Però il pallone non suda, ed Eraldo lo faceva correre eccome, recapitandolo nelle zone di competenza. Anzi, lo faceva cantare.

“Bologna era stato il mio liceo. Torino l’università. C’erano leader di spogliatoio come Salvadori. Radice, avanti dieci anni col calcio totale, una mediana di fenomeni, due attaccanti fantastici che segnavano ogni pallone ricevuto, straordinari Pulici e Graziani. Pulici in area era un killer, non aveva rivali. Mai visto nessuno come lui. E Claudio Sala, per due stagioni il più grande giocatore d’Europa. Io non ero un leader, ma facevo da collante in un gruppo di giocatori sfiduciati per il campionato rubato nel ‘72”. Scudetto che noi tifosi e quei giocatori sentiamo ancora nostro, come hanno scritto Bramardo e Strippoli in un bel libro.

Nonostante il successo, il primo anno a Torino, 1975-1976 non fu semplice. Un amico dei Fedelissimi addentro alle cose granata, la domenica nel Rettilineo di tribuna, mi raccontava quanto a Eraldo mancasse Bologna. Dei suoi frequenti ritorni là. Che non c’era alle serate con loro, i mitici Fedelissimi, appunto. E in più gli impegni da assolvere col servizio militare.

Valeva insomma sempre l’assioma del grande Nereo Rocco, che voleva i suoi giocatori sposati il prima possibile perché trovassero l’equilibrio nella vita privata. Ma Eraldo era soltanto ventenne.

Torniamo al campo.

A Pecci piaceva “legare il gioco”, la prima impostazione soprattutto. Quante volte l’abbiamo visto prendere palla direttamente da Castellini, alcune falcate verso la metà campo e poi, di mezzo collo destro, preferibilmente rasoterra, andare ad aprire la manovra. Dopo uno scambio ravvicinato con un compagno, se necessario.

Il grande Giovanni Arpino lo soprannominò il “D’Artagnan in blue-jeans”: uno spadaccino in grado di farti scoprire per colpirti nel punto debole.

Campionato 1975-1976: fu prezioso il suo goal a Cesena, ultima partita del girone d’andata: cross di Claudio Sala, incursione di Eraldo che di testa all’altezza del disco del rigore mandò la sfera all’incrocio dei pali. 1-1. In una domenica sotto un’intensa nevicata, il mio amico Nanni si fece con la famiglia il viaggio andata e ritorno dal basso Piemonte a Cesena con il suo bolide della domenica, la sua Fulvia Zagato. Che portava proprio bene, quell’anno.

1976-77. Il campionato dei 50 punti.

10 ottobre 1976. Seconda giornata. Il Torino si impone a Bologna con una prestazione superba. Pecci gioca una partita di grande spessore. Lanci lunghi, cambi di gioco, il repertorio completo del regista. Sarà l’aria di casa.

Ma nel secondo tempo, un duro contrasto di gioco con Rosario Rampanti -in maglia rossoblu- gli causa una frattura multipla.

La sua assenza, se verrà in qualche modo ben mascherata nel prosieguo del campionato di Serie A, avrà invece un impatto negativo decisivo nel secondo turno di Coppa dei Campioni contro i fortissimi tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Senza Pecci, con Claudio Sala (già menomato da un infortunio) opportunamente messo fuori causa al 23’ -colpito ripetutamente al ginocchio- nella partita di andata dal mediano mondiale Bonhof, il destino era segnato: il Torino AC venne eliminato nella sua unica apparizione nella massima competizione continentale.

“Era la chimica che si creava tra di noi nello spogliatoio. Le squadre cambiavano due giocatori a stagione, e si rimaneva compagni anche per dieci anni. Si cresceva insieme, con le famiglie. Il calcio era nelle storie di un magazziniere e di un massaggiatore, dei quali la gente non sapeva nulla. La cosa più bella era quando ti fermavano per strada e ti dicevano “Ciao Eraldo” e ti facevano sentire uno di loro. Un patrimonio inestimabile.

Uscivi dal Filadelfia e parlavi con le persone, accarezzavi un bambino al quale piaceva da matti giocare a pallone, incontravi il nonnetto che aveva conosciuto Valentino Mazzola, un altro che era stato sulle ginocchia di Bacigalupo, o quello che a Bologna ti diceva che Bulgarelli era il più grande calciatore al mondo. Oggi il calcio si è allontanato dalla gente. È un vero peccato”.

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Alessandria. Marzo 2019. Alla Taglieria del Pelo che fu della storica azienda Borsalino, ospite di Davide Buzzi Langhi, vice-sindaco di Alessandria tifoso del Toro, Eraldo Pecci venne a presentarci il suo secondo libro “Ci piaceva giocare a pallone”.

Una serata veramente piacevole. Ne conservo un gran bel ricordo, a livello personale. E una copia del suo libro con dedica a mia moglie Paola e a me.

“Il calcio è semplice. Anche se adesso ci riempiono di numeri e di schemi. Gli allenatori incidono a livello fondamentale nelle squadre giovanili, nella formazione dei giovani calciatori. Con i professionisti, l’importante è non far danni…Bisognerebbe prendere i migliori e riportarli indietro ad allenare le giovanili. Io ho avuto Cervellati, Vavassori a Bologna, che erano come Ussello a Torino.

Radice nell’anno dello scudetto fu decisivo in cinque-sei momenti; aveva adottato con successo le idee di Michels”.

“Per dare una svolta al Toro servono un paio di centinaia di milioni di euro, per comprare Messi o Ronaldo, visto che oggi la forbice tra le prime e le altre si è allargata, e pensare di competere con le prime è molto, come dire, una favola. Tra l’altro, il fatto di voler arrivare in Europa è un buon obiettivo, che comunque non mi coinvolge più di tanto. Mi fa piacere che il Toro giochi bene, che migliori, che cresca, ma quando, voglio dire, le squadre…uno che arriva quarto fa la Coppa dei Campioni, uno che arriva sesto è iscritto all’altra competizione europea, mi sembrano contentini per tutti che non mi coinvolgono tanto.

Però mi piace veder giocare veramente il Toro per la sua compattezza”.

“Bearzot mi fece esordire in Nazionale: lui aveva grande fiducia in me, io grande rispetto per lui, una persona perbene e capace che saluto lassù con affetto. Dopo il nostro scudetto del 1976, la Juve cambiò Capello con Benetti: giocavano con tre mediani; Bearzot adottò lo stesso modulo e i fatti gli diedero ragione. Evidentemente, io non ero Suarez”.

Peraltro, Eraldo è estremamente generoso nei confronti di un signore che, professandosi sempre autenticamente granata, nelle vesti di Commissario Tecnico della Nazionale non fece giocare un solo minuto a Paolino Pulici ai Mondiali, né un solo minuto a Beppe Dossena per farlo sentire autenticamente campione del mondo nell’82. E che alle domande dei giornalisti, attoniti per un mancato impiego in Nazionale di Claudio Sala durante le qualificazioni al Mondiale ‘78 in Argentina, rispondeva piccato: “Non è colpa mia se Sala è stato tra i clienti più frequenti del Professor Trillat” (ortopedico di fama, a Lione)…

Per capire la serietà con cui Eraldo Pecci affrontava la professione, un aneddoto che lo riguarda a fine carriera a Bologna, raccontato da Giancarlo Marocchi.

Alla fine di un allenamento, Eraldo si rivolse al giovane Marocchi:”Se torniamo all’inizio della mia carriera, come leader, devo dire Eraldo Pecci. Uno che mi ha illuminato con una frase. A un certo punto io mi stavo allenando, lui mi guarda e mi dice -Eh, per te è comoda, vinci o non vinci, vai a casa, tua mamma ti fa i tortellini e finisce lì. Guarda che in questo gioco sarebbe importante vincere- mi disse questo e io cambiai, diventai un giocatore vero”.

Socmel, che complimento!

Eraldo Pecci, uno che ha sempre visto lontano e sapeva in anticipo dove metterci la palla, “fisicamente pesante ma veloce di pensiero”.

Ha indossato la maglia “numero 8” di Bulgarelli nel Bologna e di Ferrini nel Torino. Con classe, con garbo, con leggerezza, col rispetto dovuto a quei due grandissimi. Lo ricorda sempre con passione, e con ironia, soprattutto con ironia. Perché ha sempre considerato il calcio, anzi il pallone, un gioco. Prima che un lavoro, un’opportunità per essere felici. Altri sono i problemi, i drammi della vita. Andò spesso a trovare il suo vecchio Presidente Pianelli a Villefranche-sur-Mer e ci passa ancora, a salutarlo.

Sulle note di “If you leave me now” dei Chicago, il Torino di Radice con lo scudetto sul petto faceva esercizi di riscaldamento sotto la gradinata sud dello Stadio Ferraris di Marassi -c’era allora un piccolo spazio sterrato dietro la porta - prima di affrontare la Sampdoria nella prima giornata di ritorno del formidabile campionato 1976-1977. Sarebbe stata una partita perfetta: vittoria con tripletta (gli inglesi la chiamano “hat-trick”) di Graziani. Ricordo bene Eraldo, i capelli lunghi giacché il servizio militare era finito.

Sono passati tanti anni. Detto da vecchio tifoso granata. Che nostalgia di quell’estate in cui il calciomercato durava un mese soltanto, e di quella mattina all’edicola:”Pecci al Torino per 850 milioni”.

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