- Calciomercato
- Prima Squadra
- Giovanili
- TN Radio
- Interviste
- Mondo Granata
- Italia Granata
- Campionato
- Altre News
- Forum
- Redazione TORONEWS
"Col sentimento...io ho trovato solo un allenatore: Gigi Radice" Beppe Bergomi, Sky, 4 giugno 2024
"La A...l'è düra" Gigi Radice
"Torino. Allenatore: Gigi Radice!".
La Curva Maratona. Alle sue spalle, lo striscione "Radice e Undici Grandi contro Tutti", al Comunale.
E a quel punto la Curva Maratona veniva giù. Definita, dalla rivista francese specializzata "Onze", la curva più bella d'Europa. I Fedelissimi di Ginetto Trabaldo. Le coreografie preparate da Serafino Geninetti e dalle sue figlie. "Correvo. Ma non ero male nemmeno coi piedi. Giocavo mediano. Quando Gipo Viani decise di spostarmi a terzino ci rimasi male. Poi, col tempo, compresi che era un ruolo nuovo, terzino di spinta, adatto a me proprio per le mie capacità dinamiche. Sono stato sfortunato: ai miei tempi le tecniche operatorie del ginocchio erano primordiali e ho dovuto smettere di giocare. A 30 anni (correva l'anno 1965) ho preso la decisione di smettere di giocare, ma in realtà erano già due stagioni che non riuscivo a scendere in campo".
LEGGI ANCHE: L’arc en ciel di Sclosa
E Gigi Radice non solo va a Coverciano per accingersi ad allenare il Monza, ma, da sportivo e da buon brianzolo aperto alle novità, va ad aggiornarsi e segue anche la pallacanestro. Le scarpette rosse di Sandro Riminucci e di Bill Bradley; All'Onestà di Warren Isaac e di Enrico Bovone; le partite a Cantù. "Io qualcosa di nuovo l'avevo cercato già a Cesena e a Firenze. Mi sono ispirato al basket, cioè al pressing. Quando hanno la palla gli avversari, bisogna interrompere il loro ritmo . La strada è quella e gli olandesi l'hanno interpretata benissimo". Parole piene di stima quelle espresse ormai a distanza di anni da Fabio Capello, "gobbo" al cubo: "Un grande allenatore che ha fatto il primo calcio offensivo con del pressing in Italia. Vinse lo Scudetto contro di noi meritatamente e come uomo mi è sempre piaciuto per la sua integrità. Portai la Primavera del Milan a vedere i suoi allenamenti. Faceva lavorare molto bene, era all'avanguardia, quel Torino aveva la sua impronta".
"Però vinse un gran bel Torino -disse Roberto Bettega in un'intervista a Vladimiro Caminiti- con quei tre davanti, Claudio Sala Graziani e Pulici. Castellini fu pure molto importante, ma quei tre e Claudio soprattutto, il trascinatore, sulla linea di fondo faceva quelle guerre incredibili...E poi gettava in mezzo...".
A fine partitella di allenamento, ad esempio, Radice schierava lo stopper "Piro" Mozzini e il terzino Nello Santin, tecnicamente bravi, in attacco, chiedendo a Graziani e Pulici di giocare in difesa. "Bisogna che costruiamo difensori in grado di svolgere il doppio compito di difendere e attaccare. Oggi abbiamo troppe sentinelle capaci solo di ringhiare sull'uomo". Gigi Radice fu il primo allenatore a portare in Italia ad alto livello -dove se sbagli, poche storie, ti fanno fuori e sei sulla prima pagina della stampa- i concetti e i dettami del total voetbal olandese. "Io sono per il calcio senza palla. Bisogna essere preparati per giocare un calcio atletico, infatti che cosa è il calcio senza movimento?". Citava spesso l'Ajax ai giocatori granata, i quali, per farlo arrabbiare, dicevano di tifare Feyenoord. E in effetti, il nostro Torino dello Scudetto e dei 50 punti ("vincevamo sempre, e poi alla fine ci hanno detto che eravamo arrivati secondi"_Eraldo Pecci) assomigliava di più al Feyenoord '69-70 di Ernst Happel.
Proprio per questa visione innovativa che rompeva con il "Catenaccio" che aveva fatto la fortuna delle squadre meneghine a livello internazionale negli Anni '60, Radice venne criticato da Gianni Brera. Nonostante la sua immensa cultura sportiva, Giuanbrerafucarlo aveva comunque una visione del gioco del football completamente differente. A suo modo di vedere, il gioco ideale per le caratteristiche del calciatore italico doveva essere basato sul contropiede. Agire a tutto campo cercando di dominare il gioco ci avrebbe esposto ad un dispendio esagerato di energie, difficili da recuperare per l'italico atleta, e alle repliche degli avversari in controgioco.
LEGGI ANCHE: Lido Vieri. "Volavamo, eravamo angeli"
Abbiamo detto dell'idea del pressing mutuata dal basket. Ora, è chiaro come il concetto non sia così semplicemente trasferibile.
Per le dimensioni del terreno di gioco, innanzitutto. Non si tratta di fare un "torello" ma di giocare in ampi spazi.
E inoltre, occorre contrapporsi uno contro uno in fase difensiva, in maniera assolutamente coordinata e possibilmente raddoppiare sul portatore di palla, mentre, una volta in possesso, la squadra è chiamata a disporsi immediatamente a ventaglio per sfruttare il proprio fronte d'attacco in tutta la sua ampiezza o ad effettuare un contrattacco rapido in verticale.
Il formidabile trio d'attacco del biennio '75-77 è stato, quasi un paradosso, il reparto più funzionale al pressing. Cioè, oltre ad essere terribili in fase realizzativa, erano i primi " cacciatori di palla". Il primo allenatore che chiese a un centravanti di inseguire un mediano fu proprio Gigi Radice con Graziani. Lucido sotto porta al momento della conclusione, Graziani si rivelava primo marcatore dei difensori avversari che, in possesso di palla, erano chiamati ad impostare e dovevano giocoforza liberarsi in fretta della sfera in maniera imprecisa. Molti ricordano un Graziani generoso ma meno preciso allorché si laureò Campione del Mondo in Spagna nell''82, ma chi lo vide giocare nel Campionato 1976-77 -quello del secondo posto con 50 punti su 60- ricorda un realizzatore implacabile, capocannoniere con 21 goal, 12 di testa, "Testina d'Oro" come Héctor Puricelli tanti anni prima, coraggioso, lucido anche nel passaggio e determinato nel pressing.
LEGGI ANCHE: L'ombra di Zamora
Paolino Pulici partecipava al movimento corale, ma a lui venivano naturali movimenti differenti per le sue conclusioni di puro istinto. Per i suoi scatti brucianti, per quei goal d'autore, si rendeva necessario rifiatare un poco di più. Aveva il goal nel sangue.
Claudio Sala. "Non vorrei fare torti agli altri. Erano tutti indispensabili. Però Claudio lo conoscevo dai tempi di Monza. Aveva fantasia, era astuto, sapeva lanciare, andare sul fondo e crossare. Sapeva fare tutto con disarmante semplicità: cioè quella del fuoriclasse". Dire che nel biennio si aggiudicò il Guerin d'Oro quale miglior giocatore del campionato, ebbene non rende l'idea di come giocava. Incontenibile per qualsiasi difensore avversario. Inaffrontabile. Furino e Gentile, terzino bianconero e azzurro capace di annullare Maradona e Zico, con lui la videro -la palla- sempre solo a fine partita. Ma il dato più curioso in fatto di pressing era che la posizione di Claudio Sala determinava in ambo le fasi l'altezza, il baricentro della squadra granata in campo. Inoltre, se si voleva giocare "corti", il libero, o il centrale difensivo, doveva venire a giocare sulla linea di centrocampo, accettando di coprire una zona molto vasta alle proprie spalle. Vietato fallire l'intervento da "ultimo uomo". Vittorio Caporale, libero della squadra Campione d'Italia, era apprezzato dai compagni proprio per la sua propensione a "salire" a centrocampo.
LEGGI ANCHE: Benito Carbone. Da Bagnara Calabra ad Aberdeen
Domenica 16 maggio 1976.
L'intervista, indimenticabile, di Paolo Frajese al triplice fischio finale dell'arbitro.
"Gigi, siete Campioni d'Italia!".
"Sì, va ben, ma 'sta roba..." (riferito all'autorete di Mozzini che determinò l'1-1 finale col Cesena, e impedì al Torino di totalizzare 30 su 30 negli incontri disputati in casa). Ancora Frajese:"Ma lascia perdere, siete Campioni d'Italia". Si avvicina Mozzini, e Radice rincara:"ma ho visto 'sta roba...non è possibile..."
"Ma lui (Castellini n.d.r.) non l'ha chiamata...". Ecco, in un momento così, ventisette anni dopo Superga, queste frasi brevi descrivono l'adrenalina ma anche la feroce determinazione con cui Gigi portò i suoi ragazzi al successo. Gigi, in quel momento, apparentemente composto, ma nell'intimo suo stravolto dalla tensione. D'altronde, dopo poche partite in quel campionato, un anziano tifoso gli si era avvicinato commosso:" Grazie. Perché oggi mi è sembrato di veder giocare Quelli Là".
LEGGI ANCHE: Adolfo Baloncieri, “l’Americano”
Formidabili quegli anni. Il triennio '75-78 e il campionato 1984-85, secondo posto alle spalle del Verona di Bagnoli, unico torneo disputato con il sorteggio integrale nella designazione degli arbitri. "Radice -scrisse Mario Sconcerti in Storia delle Idee del Calcio- cerca una sua dimensione europea di condottiero. È teatrale, filosofo, convince i suoi (molti dei quali derubati dello Scudetto 1971-72) di essere al centro di una straordinaria congiunzione astrale. Mentre per la Juve lottare per vincere è la normalità. Entra nella stanza dei suoi soldati, mette una mano sulla spalla del giocatore e gli conferma di contare infinitamente su di lui" (la marcatura implacabile di Danova su Causio nel derby del 5/12/76 ne fu un grande esempio, come aver convinto Claudio Sala a lasciare la maglia numero 10 per la numero 7 sulla fascia). Il 14 dicembre 1975 si andava a giocare a San Siro contro il Milan una partita fondamentale.
LEGGI ANCHE: Torino-Real Madrid
Zaccarelli era in forse per una botta ad una caviglia. Gigi Radice fece fermare il pullman ad un distributore chiuso. Scese con Zaccarelli e, sotto la tettoia, ne testò con Giorgio Ferrini la tenuta facendolo calciare forte contro la sfera bloccata a piè fermo. Responso: abile e arruolato per scendere in campo. Contro i rossoneri, René avrebbe realizzato al 16' uno dei goal più belli della sua carriera. Fermarsi ad un distributore nel tragitto verso lo stadio durante le trasferte sarebbe diventato in quella stagione un fattore portafortuna non trascurabile. E nel tardo pomeriggio, Carlo Sassi, nel suo servizio a Novantesimo Minuto, avrebbe detto "d'ora in avanti tra i candidati allo Scudetto va iscritto anche il Torino". Roba da stropicciarsi gli occhi. Il fotogramma di Radice, impeccabile nel suo cappotto di loden alla moda, che abbraccia Mozzini a metà campo a fine incontro, per molti di noi un momento indimenticabile. Una foto iconica della stagione. La consapevolezza di essere forti. Vincere giocando bene. Il massimo.
LEGGI ANCHE:Luca Marchegiani. Un pezzetto di cuore è rimasto a Torino
"Radice trasmette fluidi. Entra in gioco come fosse la Provvidenza". Immaginate la scena magari mentre ascoltate "(Reach Up For The) Sunrise" dei Duran Duran. "Al Toro si viveva in euforia, si irrideva il nemico. Ognuno pensava di poter andare oltre i propri limiti. Come tutti i leader sinceri, Radice non si vergognava dei propri eccessi. Qualche suo giocatore sì, magari i più anziani, i meno entusiasti". E quel conflitto in termini di carisma fu ...alla radice della separazione da Dossena e Junior, un furibondo confronto nello spogliatoio di Verona nell' '86, mediato da quell'uomo di classe che è ed è stato Renato Zaccarelli.
"Iconograficamente Radice è ricordabile come l'unico granata capace di portare sempre la cravatta ben chiusa al collo, non allentata da nessuna emozione-commozione senza apparire signorino. Ma il suo vero grande exploit fu quello di riportare il Torino allo Scudetto, il primo e sinora l'ultimo dopo Superga, senza che l'importanza sentimentale della conquista facesse smarrire, a lui e ai suoi, un atomo, un attimo di lucidità. Radice apparve subito come uomo da pellegrinaggi nel futuro, non nel passato".
Gian Paolo Ormezzano
LEGGI ANCHE: Nestor Combin, “La Foudre”
La settimana dopo la stupenda vittoria Juve-Toro 0-2 del 5 dicembre 1976, Italo Cucci scrisse sul Guerin Sportivo:
" Radice chiama i ragazzi e gli dà la carica, ad ognuno affida l'avversario come se fosse un incubo da cancellare, e alla fine negli spogliatoi manca solo che risuoni l' aulico e guerresco giuramento di Pontida. Il goal di Graziani, e subito uno sventolare di pugni da e verso la curva rossosangue; il goal dí Pulici, e subito un abbraccio a Gigi, l'amico Gigi, il compagno Gigi che ha la fortuna di essere giovane come loro...m'immagino Radice che vocia e sbraita e ride coi suoi fino al turpiloquio, come se fosse al bar. Poi torna serio, e dice che bisogna vincere; e dice, soprattutto, come si fa per vincere".
Gianni Ponta, chimico, ha lavorato in una multinazionale, vissuto molti anni all’estero. Tuttavia, non ha mai mancato di seguire il “suo” Torino, squadra del cuore, fondativa del calcio italiano. Tra l’altro, ha scoperto che Ezio Loik, mezzala del Grande Torino, aveva avviato un’attività proprio nell’ambito dell’azienda in cui Gianni molti anni dopo sarebbe stato assunto.
Disclaimer: gli opinionisti ospitati da Toro News esprimono il loro pensiero indipendentemente dalla linea editoriale seguita dalla Redazione del giornale online, il quale da sempre fa del pluralismo e della libera condivisione delle opinioni un proprio tratto distintivo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA