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La Leggenda e i Campioni

Giorgio Ferrini. Orgoglio granata

Gianni Ponta
Torna un nuovo appuntamento de “La Leggenda e i Campioni”, di Gianni Ponta: "Un orgoglio, un'appartenenza, un senso del dovere a cui, dopo i comportamenti sbagliati di taluno, recentemente, a Superga, torniamo a pensare..."

Questo episodio della rubrica di Gianni Ponta è dedicato a Giorgio Ferrini, indimenticato capitano del Torino che ha giocato quasi tutta la carriera in maglia granata, specialmente nel periodo 1959-1975 dopo aver svolto anche gli ultimi anni del settore giovanile con il Toro. Scomparve giovane a soli 37 anni di età poco dopo il ritiro dal calcio giocato e nel mentre ricopriva il ruolo di vice allenatore del Torino. Per tutta la storia del club granata si tratta di un simbolo e un vanto memorabile, un'icona che vale come esempio per ogni membro della tifoseria e della società.

 

Il giovane Paolino Pulici, agli esordi in Prima Squadra, veniva preso in consegna in allenamento da Giorgio Ferrini. Pur non essendo difensore di ruolo, il Capitano lo marcava stretto, lo lavorava ai fianchi e al costato con i gomiti. Qualcuno potrebbe pensare: un modo per sbarrargli la strada verso una maglia da titolare. E invece no. Era quello un modo per fargli capire quanto sarebbe stato duro sopportare la marcatura aggressiva, implacabile senza concessioni, da parte di difensori che agli esordi di Paolino si chiamavano Burgnich, Anquilletti, Rosato.

Luciano Castellini, portiere appena arrivato dal Monza, che mio zio Ezio chiamava acrobata non ancora "Giaguaro", in allenamento usciva un po' timido sulle palle alte. Giorgio cominciò ad "andarci" in maniera decisamente aggressiva. Finché un giorno, "Castello" uscì deciso di pugno prendendolo in pieno. Angelo Cereser, cercando di trattenere una risata, pensò: "Adesso scoppia il finimondo". Ferrini si alza con calma, si pulisce il volto con la manica della tuta, va verso Castellini, gli tende la mano: "Adesso sei del Toro!".

"Giocava sempre", ricordava Giancarlo "Pantera" Danova, al Torino nel 1960-61 e nel 1962-63: "39 di febbre, una caviglia dolorante, con i segni di botte non ancora guarite...giocava sempre".

Bari, 1967 o giù di lì. A poche giornate dal termine del campionato, il Bari si gioca la permanenza in Serie A e il Torino l'accesso alle Coppe. Allo stadio della Vittoria c'è tensione. 70': punizione dalla trequarti a favore del Toro. Ferrini, Cereser e il capitano dei pugliesi Catalano stanno discutendo, quando un coltello si conficca nel terreno a pochi passi da loro. Il volto del direttore di gara si fa bianco come un lenzuolo. Ferrini si china, raccoglie il coltello e lo consegna all'arbitro: "Non faccia niente, continuiamo", gli dice.

Si prosegue. Ferrini piazza la sfera a 25-30 metri dalla porta e calcia: rete!

Bari-Torino finisce 0-1. I granata escono tra gli applausi.

Il triestino Giorgio Ferrini, l'uomo che anche in anni difficili, con un pugno di compagni che "sentivano la maglia", è stato il collante tra il Grande Torino e il Torino grande degli Anni '70. Ecco. Se vogliamo, in punta di piedi, capire questo ragazzo, veramente cresciuto -come un tempo veniva scritto sull'album delle figurine- prima, quest'uomo poi, semplice integro e senza fronzoli, di poche misurate parole, dobbiamo partire dai fatti, da situazioni come queste. Forse bisognerebbe passeggiare una mattina presto sull'erba del Comunale o sul prato del Filadelfia, il vecchio stadio sui cui gradini la figlia Cristiana faceva i compiti mentre papà si allenava. Giorgio parlava soprattutto con lo sguardo e con l'esempio. Un uomo di passioni alfieriane, visto che siamo in Piemonte.

"Il carisma innanzitutto, lui e Cereser" così me li ha descritti Antonio Pigino, "il comportamento, la disponibilità verso i tifosi, il modo di vestire, essere un gran giocatore senza atteggiarsi, consapevole di fare seriamente un lavoro che è anche la tua passione. Ascoltato in Società da Pianelli, da Nanni Traversa, dal Dottor Bonetto".

Capo e Capitano del Torino tremendista."Il vocabolo l'abbiamo importato dal gergo sportivo sudamericano, secondo il quale tremendista è il giocatore, è il club che magari non vince grappoli di trofei, ma costituisce un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai vinta, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l'avversario è di rango: tutto questo significa tremendismo, un termine che da quando l'abbiamo adottato è riuscito a creare invidie di cui andiamo orgogliosissimi. Perché anche di neologismi si vive, non solo di pane e Coppe", scrisse Giovanni Arpino.

E se il Torino, quel Torino di tutti gli Anni '60 e dei primi '70, cui rubarono letteralmente uno scudetto, venne definito tremendista, noi granata dobbiamo dire grazie a Ferrini che, appoggiato da Poletti, Fossati, Rosato, Cereser, Puja, Moschino, Lido Vieri portò la nostra maglia rubrastra (o bianca immacolata in trasferta) ai ragazzi che poi vinsero lo scudetto. Senza una sola retrocessione, udite udite, con due coccarde della Coppa Italia e un terzo posto dietro le due milanesi che erano di caratura mondiale. E lo scudetto '71-72 che continuiamo a sentire nostro.

"Se il Torino non si è sfasciato in momenti difficili, se dopo di lui ha vinto lo scudetto, se ha giocato in Coppa Campioni, non poco merito è del vecchio capitano", firmato Bruno Perucca. Sedici campionati, 553 presenze, 53 goal.

Giorgio arriva al Filadelfia sedicenne, nel '56-57. All'imprenditore laniero Umberto Motto, ex-capitano del Toro ragazzi del '49, quindi primo Capitano del Toro dopo la Tragedia, negli Anni '50 consigliere d'amministrazione con delega alle Giovanili, lo ha suggerito un certo Josè Curti. Curti ha visto più volte Ferrini giocare nella Ponziana di Trieste. Inter e Juventus lo stanno già visionando regolarmente . Così, Antonio Fonconi, un esperto osservatore-talent scout di allora, va a vederlo giocare e chiama subito in sede a Torino: "Effettivamente è bravo. Non molliamolo". Nel lucido emozionante ricordo di Umberto Motto, classe 1930, novantaquattro anni: "Parliamo. Discutiamo e riusciamo a portare Ferrini a Torino. Abbiamo anticipato Inter e Juventus. Io mi sono assunto davanti al padre la responsabilità di portare un ragazzo di sedici anni a Torino e tutte le mattine lui veniva in stabilimento da noi, aiutava nel lavoro d'ufficio. Poi, a pranzo da noi, al pomeriggio allenamento, dove poteva sfogare la sua esuberanza, e soprattutto imparare". E da quali maestri, imparare.

Oberdan Ussello ne descrisse i primi passi in granata: "Aveva poco più di quindici anni, veniva dalla Ponziana, un lottatore indomabile. Lo prestammo al Varese per fargli fare esperienza e quando rientrò a Torino ci trovammo di fronte un giocatore che era la massima espressione del calcio atletico".

Angelo Caroli, fine penna di giornalista e poi scrittore, a metà Anni '50 giocatore nella rosa della squadra Ragazzi della Juve allenata da Sandro Puppo (i cosiddetti "Puppanti"), aveva affrontato Ferrini in campo e ne aveva condiviso momenti di tempo libero. Nel libro de La Stampa per il cinquantesimo anniversario di Superga lo ricorda così: "Il riserbo di Giorgio a una festa è totale, se ne sta in un angolo. La sua è timidezza e basta. Sul campo, questa prerogativa scompare. Come centrocampista è un fortino da espugnare, duro come la pietra, impagabile nei contrasti da cui esce vincitore, sempre. Ha un innato senso della posizione, un calcio secco e forte e una corsa a passi corti. Come ogni lottatore che si rispetti, vede più volte il suo naso sfiorato dal cartellino rosso. Qualche giornalista lo definisce ingiustamente con toni duri un killer, e ciò lo amareggia assai. Una volta si confessa: - Non hanno torto, poiché ragionano sulle statistiche e fanno la somma: tante squalifiche, tanti aggettivi e iperboli. Ma loro non sanno che cosa significhi giocare in una squadra che non ha protezioni e amici in giro-".

In proposito, ho assistito ad un episodio. Torino-Verona, primi Anni '70. Emiliano Mascetti, capitano scaligero, entra due volte in maniera pericolosa ad intimidire il giovane Francesco Graziani. Segue dopo un po' un contrasto Mascetti-Ferrini in cui il gialloblù ha la peggio. Fine delle intemperanze e la partita fila via tranquilla.

Ai Mondiali in Cile, nel '62, fu espulso dall'arbitro britannico Aston (colui che quattro anni dopo avrebbe inventato i cartellini durante Argentina -Inghilterra '66) dopo l'aggressione di Lionel Sanchez nei confronti di David. Dall'episodio, Giorgio rimane choccato. L'amarezza dell'atleta, dello sportivo apostrofato da certa stampa, è grande. Torna a lottare per il suo Toro. In maglia azzurra si laurea Campione d'Europa a Roma nel 1968.

1974-75: la stagione dell'addio. Napoli-Torino di Coppa Italia la sua ultima partita. In campionato aveva giocato per l'ultima volta a Cagliari, pareggio a reti bianche, appena due minuti al posto di Nello Santin.

Durante la stagione successiva, quella indimenticabile del settimo scudetto, più d'uno aveva proposto che se la squadra avesse avuto un buon margine di vantaggio sui bianconeri, Ferrini sarebbe dovuto scendere in campo nell'ultima partita. Giorgio aveva risposto: "Ringrazio tutti per la stima e per l'affetto. Senza dubbio è una bella proposta, ma a termini di regolamento irrealizzabile. Detto questo, aggiungo che la mia presenza non avrebbe senso. Lo scudetto appartiene ai ragazzi, io ho chiuso. E poi sono felice lo stesso. L'idea di fare il Matthews italiano non mi interessa".

Novembre 1976.

"Giorgio Vecchio Cuore Granata".

Quel padiglione granata al Filadelfia, e quegli ombrelli fitti sotto la fredda triste pioggia.

La sua camera ardente al Filadelfia, dove sulla bara era posata l'orchidea inviata da Dino Zoff. La lunga fila senza tregua dei tifosi, tra cui un silenzioso Italo Zilioli, indimenticabile campione del ciclismo.

Boniperti disse a don Francesco: "Dica alla signora Mariuccia che noi in Giorgio Ferrini abbiamo sempre visto un avversario leale, un uomo vero; la nostra stima, il nostro rispetto non è mai mancato per le sue doti di sportività".

Così Boniperti parlò a Giampaolo Ormezzano nel quarantennale di Superga. "Ancora adesso se penso al calciatore più utile a una squadra, non penso a Pelé, Di Stéfano, Cruijff, Platini o Maradona: o meglio penso anche a loro, ma dopo aver pensato a Valentino Mazzola. E a Ferrini".

Servirebbe dire di più?

Omar Sívori pianse il suo indomito avversario.

"A vent'anni, titolare d'una squadra retrocessa in Serie B, Giorgio Ferrini cominciava, con l'asta della bandiera granata impugnata come una lancia da combattimento, la sua lunga ribellione alle forze oscure che assediavano senza misericordia il Torino. Giorgio Ferrini non sapeva neppure di battersi contro tutte queste cose negative: era solamente conscio che bisognava lottare, correre, senza cedimenti e senza esaltazioni. Credo che Ferrini abbia sentito di poter vincere la guerra del Torino quando ha conosciuto compiutamente il Presidente Pianelli", firmato Giglio Panza.

Giorgio Ferrini. Un orgoglio, un'appartenenza, un senso del dovere a cui, dopo i comportamenti sbagliati di taluno, recentemente, a Superga, torniamo a pensare. Profondamente.

"È cambiato il calcio, è cambiato tutto. A noi restano tanti ricordi indelebili, e un'amarezza che prescinde dai risultati sportivi"

Giuseppe Culicchia

Gianni Ponta, chimico, ha lavorato in una multinazionale, vissuto molti anni all’estero. Tuttavia, non ha mai mancato di seguire il “suo” Torino, squadra del cuore, fondativa del calcio italiano. Tra l’altro, ha scoperto che Ezio Loik, mezzala del Grande Torino, aveva avviato un’attività proprio nell’ambito dell’azienda in cui Gianni molti anni dopo sarebbe stato assunto.

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