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columnist
“La tradizione non vuol dire che i vivi sono
morti, ma vuol dire che i morti vivono”
Harold McMillan
Quando ho scoperto che qualcuno ha pensato il 4 maggio 2019 come una data possibile per il prossimo Derby della Mole, diversi pensieri hanno affollato la mia mente. Ma prima dei pensieri sono salite su due parole: cinismo e pragmatismo. Sul pragmatismo culturale ci tornerò dopo. Il cinismo è una perversione umana, nata in contrapposizione all’idealismo, in questi ultimi decenni elevato, incredibilmente, a categoria dello spirito. C’è qualcosa di sincreticamente stupido, di mescolanza di sciocchezze, in questo modo di operare da parte di chi dirige il carrozzone della Serie A. Se avessero un minimo di cognizione di causa riguardo ai ruoli ricoperti, non avrebbero mai nemmeno pensato di situare il 4 maggio 2019 una partita tra i granata e i bianconeri. E non per un ovvio e semplice, assolutamente dovuto e necessario, rispetto della memoria di ciò tragicamente accaduto nel 1949, ma anche e soprattutto per amore di un gioco, il calcio, che sulla tradizione e il ricordo ha costruito tutta la sua fortuna emotiva. Qualcuno, nei piani alti del carrozzone citato, deve aver ritenuto la vicenda del Grande Torino un qualcosa relegata ad un momento passato dal quale ci si è emancipati e rispetto al quale ci si è costruiti un futuro migliore, un punto di riferimento che racconta di quanto gli italiani, da quel momento, siano migliorati a partire da un periodo caratterizzato da sofferenze e privazioni. In quanto tale, quindi, da archiviare come un momento meramente restauratore, cioè come un canto elegiaco dei bei tempi andati.
Nessuno, tra i dirigenti sportivi italici, sembra avere come riferimento il “destino”, questa strana cosa che, come scrive Marcello Veneziani, “conferisce senso all’accadere, indica il disegno intelligente del divenire”. Ecco allora come tutto finisca per diventare solo il destino sostituito dal progresso, a provocare una preoccupante, nelle vicende umane, carenza di senso. “L’estrema modernità – scrive sempre Veneziani – ha dichiarato guerra al destino in ogni sua forma:natura, limite, obbligo, ordine, necessità, fedeltà”, riducendo tutto a pura parvenza, cioè al fantasma del niente. “Solo il fato li vinse”, recita un celebre epitaffio dedicato agl’Invincibili, e mai epitaffio fu più azzeccato, perché è proprio in quell’epitaffio che gli italiani colsero, e potrebbero continuare a cogliere, il senso del proprio stare al mondo. Quella squadra che gli italiani con i capelli bianchi, non esclusivamente tifosi del Toro, insistono a ricordare forse in modo a tratti confuso ma non senza qualche lacrima di commozione, continua ad essere un punto di riferimento della memoria di un Paese tenacemente teso a ritornare ad ottenere quella dignità che le era stata sottratta. Ricordare quei giorni culminanti nel tragico 4 maggio 1949, vuol dire onorare un destino che si è compiuto affinché i posteri potessero avere sempre l’occasione di riannodare un filo con la propria storia. Ignorare ostentatamente ciò, manifesta il tentativo maldestro dell’attuale classe dirigente di rimuovere forzatamente un passato ritenuto evidentemente fastidioso. E allora a questi, l’attuale classe dirigente, pare evidentemente normale calpestare con ferocia indifferenza il sacrificio massimo che il destino impose a quei giocatori e alle loro famiglie. Ma nessuno pensi che questa ferocia indifferenza sia frutto del caso o di una banale dimenticanza, è piuttosto, a mio parere, parte del piano di quel pragmatismo culturale di cui tutta l’Europa ormai si sta volutamente dotando, pensando improvvidamente di poterne ricavare un nuovo sol dell’avvenire. Questo pragmatismo culturale pervicacemente perseguito dalle classi dirigente europee, con una sorprendente connotazione tenace da parte della classe dirigente italiana, ha come obiettivo abbattere la tradizione, cioè l’ordine delle cose. La smodata varietà dei messaggi mediatici e comportamentali ai quali siamo sottoposti, ci hanno indotti a ritenere la tradizione non come un valore trascendente, e quindi dalla potente componente nostalgica elevata al suo massimo valore positivo, ma come un inutile orpello da rimuovere al fine di vivere l’unica cosa che importi in quest’era talmente svuotata di contenuti: l’odiernità. Questo neologismo descrive perfettamente l’animus attuale della società contemporanea(un mondo contemporaneo al quale per la prima volta nella storia non si riesce a dare un nome), che si è fatta dimentica della tradizione come valore di ordine delle cose, quindi di bellezza. “La società contemporanea, abbandonando il parallelismo tra ordine e bellezza ha perduto il desiderio di realtà”, c’è scritto in un libro di un filosofo inglese letto qualche tempo fa, in un tentativo di sostenere come il concetto di ordine e bellezza, da un certo momento in poi, ha vissuto nella società contemporanea una sorta di scissione. Lo si vede nell’arte, lo si sta vedendo anche nello sport. Il fatto che una cosa per acquisire una sua rilevanza non abbia più la necessità di seguire un ordine, che da Platone in poi rimanda ad una realtà trascendente, apre la strada allo scardinamento e alla decostruzione di tutto ciò che fino ad oggi abbiamo conosciuto, amato e ricordato. Per essere estremamente chiari, in questo momento è in corso una distruzione di una civiltà e di una visione fondata su un ordine prestabilito. Non a caso la parola “cosmos”, in greco antico, intende l’ordine delle cose che per i greci era anche sinonimo per descrivere la bellezza (da qui discende la parola “cosmetici”, che come è noto servono per abbellirci). Ma i dirigenti sportivi europei, in questa occasione quelli italiani, hanno deciso di farci imboccare la strada del caos, che in greco sta ad indicare l’esatto contrario dell’ordine prefigurato dalla parola cosmos. Ma la storia degli uomini ci ha abituato alle cosiddette pietre d’inciampo, a quegli imprevisti che riescono a mettere in crisi anche i più famelici piani.
Nel momento in cui uno pensa, in questo caso me medesimo, come tutto ormai stia sprofondando nel cinismo più assoluto, e al diavolo la bellezza e l’ordine delle cose, ecco sulla rete montare la protesta della quasi totalità dei tifosi del Toro, a partire da quelli che frequentano il covo storico del tifo granata: la Curva Maratona. Questi tifosi, o almeno la maggioranza di essi, proprio non ci stanno a giocare il derby il giorno in cui vogliono commemorare ciò che di più caro hanno nella loro memoria. E allora hanno cominciato a prefigurare ogni forma di tipo di protesta, affinché la Lega A prenda in esame di spostare il giorno dello svolgimento del Derby della Mole. Alcuni di questi tifosi, addirittura, hanno invitato il presidente Cairo, nel caso la Lega A persistesse nel voler far giocare il derby il 4 maggio, di non far scendere in campo la squadra, accettando l’idea di perdere dei possibili punti a tavolino. La cosa mi ha fatto venire un sussulto positivo di sorpresa come non ne avevo da tempo, perché so bene quanto i punti, in questo momento cruciale della stagione, siano necessari alla squadra granata per arrivare a centrare il sogno Europa League. Ma per questi tifosi, verso i quali il mio stato d’animo invia un sincero ringraziamento, stanno dimostrando fattivamente come non tutto può essere in vendita, nemmeno per il sogno di una partecipazione ad un coppa europea. Altri tifosi granata stanno invitando a non andare allo stadio, altri si rifiuteranno, nel caso, di vedere la partita in televisione. Questi tifosi, quel giorno del 4 maggio, vorranno fare una sola cosa: ricordare ed onorare il loro passato. Questo fatto, almeno a me, mette ottimismo e fa pensare come forse il caos ancora non abbia vinto definitivamente sul cosmos. Questa reazione dei tifosi del Toro è un grido al mondo che non tutti sono stati anestetizzati sull’altare del calcio spettacolo prefigurato in qualche stanza oscura, è una speranza per un Paese, l’Italia, bisognosa di ritrovare qualche bagliore di luce in fondo ad un tunnel da incubo. Per cui voglio ringraziare i tifosi del Toro per l’istante di buon umore che mi stanno regalando e per il monito lanciato. Perché proprio non auguro, a tutti noi, di finire nello stato d’animo di Saganarello, servo dell’impenitente Don Giovanni di Moliere, che dopo aver visto sprofondare il suo padrone tra le fiamme dentro una voragine, urla disperato:“Il mio salario! Per carità, e i miei salari? Vorreste che vi seguissi all’inferno per farmi pagare”? No, credo proprio che non meritiamo una fine così. Credo proprio che gli uomini abbiano la possibilità di cavalcare altri orizzonti. Il cinismo dell’odiernità, voglio credere, non cancellerà il nostro passato e non impedirà di consegnare un futuro degno ai nostri posteri. Questo insegna il destino del Grande Torino, questa insegna la storia di tutti gli uomini migliori che ci hanno preceduto.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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