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La memoria del futuro granata

Maria Grazia Nemour
Sotto le granate / Eppure no, alla memoria non si può rinunciare. È un peccato mortale

A volte avere la memoria corta aiuta. Almeno l’umore, aiuta, così il mercoledì hai già dimenticato la partita di Coppa della domenica. La memoria corta non ti pungola con l’idea che l’ultima Coppa Italia vinta dal Toro risalga al 1993, era un altro secolo.

Domenica a pranzo stavo aspettando la mia pizza al tavolo del locale di fronte allo stadio e vedo il signore in maglia granata – granata come tutti, lì dentro – seduto davanti a me, bussare alla vetrina, per acchiappare l’attenzione del bambino sul marciapiede, dall’altra parte del vetro. Il primo è più vicino ai 100 che ai 50 anni, il secondo più ai 5 che ai 10.

Il primo gli indica la testa: cosa hai lì?

Il secondo si tocca con una mano: il cappello del Toro.

Toglilo! – dice il signore attraverso il vetro – Toglilo ora che non sai ancora niente di Toro, e sei in tempo a cambiare.

Avrei voluto intromettermi, chiedere a quel signore di raccontare piuttosto al bambino di quando aveva visto – con gli occhi che ancora si porta dietro! –  la squadra più grande di sempre giocare al Filadelfia, quando aveva esultato per la vittoria della Coppa Italia e lo scudetto, la Nazionale granata, di raccontare al bambino di giaguari e farfalle, fallimento e rinascita. Ma poi il bambino mi ha guardata per un attimo, corrucciato, e io mi sono limitata a indicargli il mio Toro sulla maglia. Mi è tornato in mente mio figlio quando gli sistemavo il cappellino, prima di lasciarlo davanti a scuola. Lui quel torello in testa se lo metteva solo per farmi piacere, probabilmente lo sfilava subito dopo l’entrata, perché la maggior parte dei suoi compagni ne aveva un altro di cappello, un cappello di qualcuno che, ieri come oggi, vinceva di più, facilmente, con distacco. Dovrebbero insegnarlo a scuola che quando subisci delle sconfitte ma ti ostini a non mollare, sei tutto tranne che un perdente. Anche se la voglia di vincere di più, facilmente, con distacco, è tanta. Legittima. Il Toro è sopravvissuto a due guerre, deportazione, una spinta giù dal cielo, il dileggio per ragioni economiche. Sopravviveremo anche alla mediocrità dei risultati. Ognuno ha il suo Toro dentro, un Toro che assomiglia alla vita che ha vissuto fino a quel momento. Il Toro di quel signore più vicino ai 100 che ai 50, domenica era stanco, stufo di aver accumulato così tanta memoria granata, forse.

Eppure no, alla memoria non si può rinunciare. È un peccato mortale. Soprattutto a gennaio, non si può rinunciare alla memoria.

E allora ben venga che Torino si ricordi finalmente del Capitano del Calcio Valentino Mazzola, intitolandogli una via che porta allo stadio, perché di persone ne ha trascinate così tante, lui, sulla via del calcio. E ne ha salvate altrettante dal contropiede del dopo guerra, segnando il ricominciamento della speranza nei tifosi, e non solo. Vincenzo Millico con Valentino Mazzola condivide le iniziali, oltre che il colore della maglia con cui gioca, speriamo  che il futuro di Millico abbia la memoria di quel grande, che sappia conquistarsi anche lui una strada.

E ben venga la pietra d’inciampo che verrà deposta a Torino il prossimo 22 gennaio sul sedime di via San Donato, all’altezza del civico 27, a ricordo di Vittorio Staccione. Quel Vittorio Staccione che è bene non dimenticare perché alla città di Torino regalò due gambe a rincorrere un pallone – mediano granata del primo scudetto del Toro 1926/27 – ma anche l’integrità di chi sa opporsi alle ineguaglianze nonostante il prezzo da versare. Fu proprio per aver partecipato all’organizzazione dello sciopero operaio della città, nel 1944, che fu arrestato e deportato a Mauthausen.

«Vittorio Staccione - Simbolo dello Sport come impegno civile, sociale e politico, giocò da protagonista nei campi della vita per la libertà e la fratellanza degli uomini» recita la targa che Cremona – città dove giocò un anno solo in prestito dal Torino, ma che ha avvalorato prima di Torino il suo ricordo – ha affisso all’entrata dello stadio Zini, in modo che tutti quelli che entrano lì dentro, escano comunque più ricchi di qualche buona idea.  E se a qualcuno sorgesse il dubbio che nel gennaio del 2019 la deposizione di una pietra d’inciampo sia qualcosa di anacronistico, basta ricordare che solo qualche giorno fa, a Roma, sono state divelte e sottratte venti pietre del ricordo. Il ricordo ha il potere di fare inciampare il pensiero, induce a fermarsi e magari cambiare strada, nel presente. Perché il ricordo crei futuro.

Forse è per questo che un signore con troppa memoria e un bambino che non ne ha neanche un po’, si trovano insieme davanti allo stadio, con un cappello del Toro in testa: non rinunciano al quarto d’ora granata, quello che si deve sempre, ancora, giocare

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.