columnist

La mia Italia

Anthony Weatherill
Loquor / Torna la rubrica del nostro Anthony Weatherill: "L'Italia non è un banale episodio della storia del calcio, l'Italia è la storia del calcio"

“Amo i tuoi mari splendidi e le tue Alpi sublimi,

amo i tuoi monumenti solenni e le tue memorie

immortali; amo la tua gloria e la tua bellezza”.

Edmondo De Amicis

Alla fine di queste due giornate di Champions League, e assistendo alle due splendide prove di Roma e Juventus, ho ricordato una frase di Friedrich Nietzsche: ”il genio italiano ha usato nel modo di gran lunga più libero e fine ciò che ha preso a prestito e ci ha messo dentro molto di più di quello che ne ha ricavato, essendo il genio più ricco, che più poteva donare”. . Ho faticato, nel corso della mia vita, a trovare una frase simile così bella, e vera, sull’Italia detta da un italiano. Anzi, la deriva auto censoria della classe intellettuale italiana verso il proprio Paese mi ha sempre meravigliato, e in negativo. A nessun intellettuale inglese, per esempio, verrebbe in mente di avvalorare la tesi, scherzandoci anche su, di un suo Paese abitato da una sorta di cialtroni, individualisti e scansafatiche. Ma in libri, in giornali, sulla rete troverete un’infinità di ironie giornalistiche suoi difetti degli italiani. Non è stata una sorpresa, quindi, la sarabanda censoria dei giornali italiani, dopo le dure sconfitte della Roma e, soprattutto, della Juventus all’Allianz Stadium. E’ partito un coro, ormai tristemente noto, della supposta superiorità del calcio spagnolo su quello italiano (ovviamente omettendo che Bacellona e Real Madrid hanno nei loro organici i due giocatori più forti del mondo: Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, che spagnoli non sono); di come i giovani calciatori italiani debbano imparare dai loro omologhi spagnoli a giocare “palla a terra”, per arrivare al “fausto” giorno in cui, anche loro, potranno sfoggiare il magnifico (si fa per dire) “tiki taka” (da me definito “tikinada” in un ).

Tutto, dicono i critici italiani, deve cominciare dalla “cantera” (chiamarlo “vivaio” non avrebbe nessun senso estetico), dove bisognerebbe insegnare ai giovani italiani il valore dello spettacolo(ma il calcio non era uno sport?), “per rispettare chi paga il biglietto allo stadio”. Cominciò Arrigo Sacchi con questa litania, con la boria di chi mette in risalto come nella vita sia necessario cibarsi di elementi di qualità, dimenticando di dire come un chilo di gamberi rossi possa arrivare a costare anche ottanta euro al chilo e come un Sassicaia possa essere più quotato dell’oro. I tre olandesi, Maldini, Baresi e via dicendo, andarono a formare una delle squadre più forti e costose di sempre. Si sa, con dei gamberi rossi e del Sassicaia, è facile fare spettacolo a tavola. Ovviamente lo stesso “spettacolo” il buon Arrigo Sacchi non lo diede in seguito né con la nazionale italiana (l’Italia dei mondiali americani e sacchiani stava per essere eliminata dalla Nigeria, e fu salvata solo da una discesa sulla fascia di Mussi che regalò un pallone in verticale per il gol chirurgico di Baggio Roberto da Caldogno. Tutto nella più sana tradizione italica), né con le poche altre squadre di club allenate(desolante fu il suo breve ritorno al Milan). Ma la stampa italiana fece assurgere il tecnico di Fusignano, manco fosse Gabriele D’Annunzio, a ruolo di vate perenne del calcio italiano. Un Tiresia a cui rivolgersi ogni qualvolta il calcio del Belpaese affonda in qualche disastro, e da cui riceve sempre la stessa risposta:”bisogna capire che i padri fondatori del calcio(ma davvero sacchi sa chi sono? potrebbe dire finalmente, di grazia, chi sono?) lo hanno concepito come un gioco d’attacco (infatti, chissà perché, hanno stabilito la regola del “fuorigioco”).

Gli italiani (infatti lui è svedese) questo non lo capiscono, perché la nostra cultura è sempre speculare e difensivista”. Tale sciocchezza, ormai elevata a luogo comune, viene riportata ogni volta da torve di giornalisti adoranti,  pronti a rimarcare come siano cialtroni, utilitaristi e individualisti gli italiani. Arrigo Sacchi è colui che di fronte ad una Juventus giunta in finale di Champions, arriccia l’aristocratico naso per non aver visto un fine tiki taka per tutta la partita. Sicuramente l’assedio nella metà campo della Roma effettuato dal Barcellona nell’ultimo quarto d’ora della partita di Champions è stato vissuto all’interno dell’esagerato ego del tecnico romagnolo come una sconfitta del calcio italiano(pazienza se poi i giornali di tutto il mondo hanno parlato di trionfo storico della società capitolina). Passato di moda Sacchi, ormai ridotto al rango di un Tiresia concionante direttamente dalle reti di Mediaset Premium, è assurta  la luce di Pep Guardiola. E, ancora una volta, la classe dirigente italiana(non vi nascondo che faccio fatica a ritenerla tale) viene travolta dall’orgasmo di “correre in soccorso del vincitore”, ordinando alla propria stampa di delinearne i contorni da semidio per come fa giocare il Barcellona(omettendo, ancora una volta, come l’Eterno avesse fatto congiungere in quella squadra i giocatori spagnoli tra più forti di sempre, coadiuvati dal più forte giocatore degl’ultimi vent’anni). E allora lì a sospirare(i giornalisti e dirigenti italiani), come dei ridicoli Romeo sotto il balcone di Giulietta/Guardiola, sognando il giorno di una sua seduta in panca di qualche club italiano, per inaugurare la svolta copernicana del calcio italiano. Ma Guardiola non è Copernico e nemmeno un fesso,per cui si è ben guardato di andarsi ad impelagare nell’arcipelago dei budget societari sempre più poveri dei club italiani. Un vecchio detto recita “senza i soldi non si canta la messa”, per il tecnico catalano andrebbe bene anche “senza i soldi non si può esercitare l’istinto egomaniaco”.

Barcellona, Bayern di Monaco, Manchester City: questi sono i tre club guidati fino ad oggi da Guardiola. Flavio Briatore, in una recente intervista, ha dichiarato che tra quei club e la Juventus, la prima squadra italiana come fatturato, passa una differenza di mezzo miliardo di euro. Differenza incolmabile secondo il ragioniere piemontese. Ma questo, per la classe dirigente i  giornalisti italiani, non conta: gli italiani sono brutti, rozzi, cattivi, cialtroni e scansafatiche. E’ faticoso essere classe dirigente di simile accozzaglia di gente (mi verrebbe da ricordargli il celebre adagio: “Spagna, Spagna, purchè si magna!”). E cosa possono fare, con tale gentaglia, i poveri Giovanni Malagò, Billy Costacurta e Gaetano Miccichè? Senza allenatori come Sacchi e Guardiola(e oggi Sarri, che infatti con i suoi metodi di campioni ne ha scovati tanti: Tonelli, Valdifiori, Hisaj. Tutti degli evidenti fuoriclasse), ovviamente non si va da nessuna parte. E allora lasciamoli fare quei procuratori e direttori sportivi che portano avanti giovani calciatori al prezzo di laute tangenti, in fondo non importa se  giocatori abbiano talento o meno, vista un’Italia sempre in difesa a non dare spettacolo. E’ davvero incredibile, per me che sono inglese, vedere il processo di autocolpevolizzazione messo in atto da sempre dagli italiani. “I tedeschi sono bravi e organizzati, non come noi che vogliamo sempre fregare tutti”, salvo poi scoprire  il dieselgate dei  “bravissimi e onestissimi tedeschi”, che lascia a marcire in immensi spazi americani vagonate di automobili diesel tedesche ormai impossibili da vendere. “Gli italiani vogliono fare debiti senza pagarli”, urlano giornalisti tedeschi in varie trasmissioni tv italiane in cui vengono invitati, senza nessun presentatore o giornalista italiano a ricordargli  che l’Italia è l’unico Paese europeo a non aver mai fatto default, al contrario delle tre bancarotte storiche dell’onestissima Germania . Ma gli italiani, chissà per quale motivo, si sentono sempre  colpevoli di qualcosa, si sentono sempre condannati a cercare di dimostrare di essere migliori di come si rappresentano. Ma l’Italia vorrei ricordare agl’amici italiani,  non è un banale episodio della storia del calcio, l’Italia è la storia del calcio. Gli italiani sanno guardare dentro il profondo di un abisso e affrontarlo, e sanno rinascere sempre. Le vicende delle italiane di queste ultime sere lo hanno dimostrato, e a me personalmente hanno commosso. Roma e Juventus, guidate da due tecnici italiani, hanno dimostrato la bellezza del gioco del calcio; fatta d’intelligenza, talento, carattere, coraggio e cuore. Il gioco del calcio è nato per dare una speranza anche ai più deboli, è nato per esaltare la competizione che diventa memoria collettiva, è nato per ammirare intelligenza e talento, è nato per farci stare insieme e ammirare le nostre reciproche differenze. Sono grato alle due squadre italiane di avermi ricordato questo e di aver smentito il mezzo miliardo di differenza di cui parla Briatore.

Affrontare i più ricchi con la forza e la determinazione della consapevolezza dei propri limiti, ma non per questo impossibilitati dal poter vincere, è la più bella virtù che gli italiani portano nel cuore; ecco perché loro, insieme al Brasile, sono il calcio. Ha scritto Elisabeth Spencer, una molto talentuosa scrittrice americana: ”Chiunque ha un sogno dovrebbe andare in Italia. Non importa se si pensa che il sogno è morto e sepolto, in Italia si alzerà e camminerà di nuovo”. E’ proprio il sentimento della Spencer che ho provato in queste due serate di Champions e allora, visto che voi italiani non ce la fate più a dirlo e visto che io sono inglese, fatemelo gridare a me, almeno per una volta:”Viva l’Italia”!

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.