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La partita che era meglio non vincere
Ultimi assalti all’Olimpico di Amsterdam col Toro che disperatamente cerca quel gol che varrebbe un successo storico: il pallone termina a Sordo che, con una splendida girata di destro, indirizza a rete. La palla centra la traversa, ma la disperazione per il terzo legno colpito dai granata non dura neanche un secondo per squadra e tifosi. La sfera rimbalza addosso a Menzo e carambola in rete facendo impazzire un popolo che, pochi istanti dopo, vedrà Cravero alzare la Coppa Uefa.
Reggio Emilia, clima torrido. Tony Dorigo si presenta sul dischetto per il quarto rigore del Toro contro il Perugia. La palla colpisce il palo e finisce in rete. Anche Colonnello trasforma il suo penalty, lo stesso fa Carparelli. Tocca a Tovalieri, ma Bucci ha l’energia per l’ultimo balzo e respinge. I granata iniziano a correre dalla parte opposta del campo, dove ci sono i loro tifosi. Giustizia è fatta, il Perugia ci ha provato in ogni modo a toglierci quella gioia, anche non pulitissimo (eufemismo), ma il Toro, in dieci dall’8’ dello spareggio, è promosso in serie A. Il gol di Glik ha ridato inaspettata speranza all’Olimpico di Torino. Quando l’arbitro indica sei minuti di recupero lo stadio esplode in un boato pauroso. In una bolgia infernale il Toro si riversa in avanti: proprio Glik si ritrova a crossare in mezzo, la difesa dello Zenit respinge male, Quagliarella tira al volo, Maxi Lopez corregge di testa e la palla entra nonostante l’intervento disperato di Lombaerts sulla linea. I russi sono in ginocchio e sulle ali dell’entusiasmo arriva il 3-0 di Quagliarella che vale il passaggio ai quarti di Europa League, impensabile fino a pochi istanti prima. La finale di Varsavia inizia a essere un sogno possibile.
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Quante volte abbiamo sognato a occhi aperti conclusioni differenti per partite passate e future. Le finali di Coppa Italia perse negli anni ’80, il ritorno contro il Tirol, le volte che i derby sono stati amari nel finale, quel Toro-Verona che avrebbe potuto cambiare la storia di una campionato se Garella e i pali non si fossero messi di mezzo, la partita contro lo Stoccarda e quello stramaledetto centoventunesimo minuto. Sogniamo sempre in un finale diverso, ma c’è un caso, un caso solamente, in cui sogniamo a occhi aperti se non una sconfitta almeno un pareggio. E’ una partita che si gioca il 15 ottobre 1967/68: Torino 4 Sampdoria 2. E’ l’ultima partita sulla terra di Gigi Meroni.
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Il Torino 1967/68 è una gran bella squadra, tanto che a fine stagione alzerà la Coppa Italia. Nereo Rocco ha appena lasciato i granata per tornare al Milan e sulla panchina del Toro siede Edmondo Fabbri, che aveva obbligato Meroni a tagliarsi i capelli in nazionale e che, nella celeberrima spedizione mondiale del 1966 in Inghilterra, non aveva schierato Gigi contro la Corea del Nord. Meroni che fu ostracizzato dalla Federazione da lì in poi, un bersaglio perfetto per il puritanesimo del tempo. Come se fosse stata colpa sua, schierato contro i russi, ma non contro gli asiatici. Pianelli, con un’intuizione geniale, vede la voglia di rilancio di Mondino che cerca un contatto con il numero sette del Toro che, dimostrandosi di grande spessore umano, lo “perdonerà”. Gli aveva fatto pena, confiderà.
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Perdiamo la prima a Vicenza, battiamo due a zero il Brescia nell’esordio casalingo (Meroni su rigore e Moschino), pareggiamo 1-1 a Firenze con De Sisti che risponde al gol in apertura di capitan Ferrini, poi espulso, e Meroni che fallisce il rigore della vittoria. Le mani dei capelli dopo l’errore diventano il momento del riscatto sette giorni dopo, quando la Sampdoria arriva al Comunale. Manca Ferrini squalificato, esordisce Aldo Agroppi, fra le colonne del futuro Tremendismo, ma al momento “solo” un giovane che esordisce in un giorno che diventerà sì storico, ma per un motivo che sarebbe stato meglio non lo fosse diventato mai. In attacco c’è Nestor Combin, detto “La Foudre”. Lui e Meroni sembrano fatti l’uno per l’altro, in campo e fuori. Dopo 12’ la gara si sblocca quando, su cross di Poletti, Gigi sfiora di testa e il futuro milanista insacca con opportunismo. Al 29’, però, Francesconi, che in precedenza aveva colpito un palo, segna da lontano, piegando le mani a Lido Vieri: 1-1.
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Il Toro reagisce subito. Meroni è scatenato e da un suo spunto nasce il 2-1: palla ancora a Combin che segna dopo la respinta di Battara sulla sua stessa conclusione. Il Toro attacca, sembra avere la partita in mano, ma a fine frazione arriva il 2-2 con un tiro da fuori di Bob Vieri, papà di Christian, che supera il suo omonimo granata. Nella ripresa i padroni di casa si gettano in attacco, Battara para tutto o quasi, Meroni fa impazzire la difesa ospite, ma fra lui e il gol è questione di centimetri. A una decina di minuti dalla fine, però, ci pensa il Moschino con una prepotente azione personale: Battara dice ancora di no, ma il gran regista del Toro insacca sulla ribattuta. La Samp reagisce, ma Lido Vieri chiude la saracinesca e, allo scadere, Combin, su assist di Agroppi, segna con precisione il gol della sua tripletta. Tutti felici, domenica c’è il derby.
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Edmondo Fabbri, dopo le partite, portava i giocatori in ritiro di domenica sera, ma, in seguito a una vittoria così, sulle insistenze dei calciatori, decide di concedere la serata libera. Ed è per questo che, se mi ritrovo a fantasticare su quel 4-2, spero che finisca in modo diverso, magari con un pareggio. Battara avrebbe potuto continuare a parare tutto, quante volte è successo nella nostra storia? Non poteva capitare quel pomeriggio? Così la sera tutti in ritiro e Meroni non sarebbe potuto andare a quel maledetto appuntamento col destino e si sarebbe passato il lunedì a brontolare per il mancato successo e non a piangere per una morte che non riesco ancora adesso a non vivere come un insulto.
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O forse non sarebbe cambiato niente. Il destino avrebbe trovato lo stesso il modo, come la nera signora cantata da Vecchioni in “Samarcanda”. Perché il destino è semplicemente un pezzo di merda maledetto contro cui non riusciamo a ribellarci, proviamo a rassicurarci con un’alzata di spalle, “è stato destino”, addirittura qualcuno lo chiama karma che fa più figo, ma in realtà il destino è solo qualcosa contro cui, talvolta, non possiamo far altro che provare rancore sordo, perché se fosse una persona in carne ossa lo prenderemmo per il collo per quello che fa, invece ci lascia lì nel dolore, nel non capire.
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Quella sera si spegne una luce. Muore una persona incredibile e un calciatore meraviglioso. Muore un uomo che in ventiquattro anni (ragazzi, ventiquattro anni) ha vissuto tante di quelle cose che molti non vivono in sessanta/settanta. Muore un uomo che voleva solo vivere a modo suo, col suo estro, con la sua arte, un ribelle educato, semplicemente da amare. Ci avrebbe ancora riempito gli occhi di gol meravigliosi. Paradossalmente il mio preferito non lo segna con la nostra maglia, ma è come se lo facesse, perché lo fa sotto la Maratona, durante una partita della Nazionale contro l’Argentina, invocato a furor di popolo al posto di un fischiassimo Sandro Mazzola. Forse quello più bello ancora è quello storico contro l’Inter, ma alla lunga ha contribuito a far vincere lo scudetto ai cugini ed essendo un provinciale, non riesco a godermelo a pieno per quel motivo. Contro i sudamericani scappa leggermente defilato sulla sinistra, entra in area e calcia col mancino a incrociare. Il pallone si insacca sotto l’incrocio dei pali opposto con una traiettoria semplice, ma che sembra quasi allungare la sfera, come se fosse stata una fionda a scagliarla. Poi la corsa dietro la porta, sotto la curva, abbracciato da chi era a bordo campo. In quel momento la sua maglia numero 21 è azzurra solo per convenzione. Se guardiamo bene, è granata.
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Meroni non stanca mai. C’è sempre qualcosa da raccontare che risulta sempre nuovo e raramente retorico (se escludiamo le solite dieci righe della stampa generalista). L’amore con Cristiana, e come ne parla lei, è qualcosa che continua a dare i brividi e a inumidire gli occhi. Combin che piange sulla bara e sfodererà un’altra tripletta nel derby successivo vinto 4-0, col poker calato dalla maglia numero sette, vestita da Carelli, è leggenda. Meroni ci ha lasciato queste e tante storie da raccontare, ma, soprattutto, un rimpianto enorme. Che non sia rimasto insieme a noi a raccontarle in prima persona. Non doveva finire così. E allora chiudiamo gli occhi e pensiamo che quella partita sia finita 2-2, una vittoria mancata per continuare a sognare dopo. Ne sarebbe valsa la pena.
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