“È il bisogno di sentirsi attaccati a una Radice” è così che dicono gli americani quando, dopo aver sorvolato l’oceano, entrano nel comune abbarbicato in montagna dove lavoro – terra di emigrazione in un passato, non passato poi da così tano tempo – con lo scopo di disegnare il loro albero genealogico. E non è nostalgia del passato quanto interesse per il presente. Curiosità di scoprire da dove si arriva, per capire dove si sta in questo momento, e magari immaginare un posto più lontano dove dirigersi.
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La Radice del Toro
Il dente morde e mastica se è ben attaccato alla Radice profonda che non si vede ma lo ancora, non lo molla mai. È forse il tratto più distintivo del Toro, l’attaccamento alle radici. Consapevolezza di essere l’ultima momentanea parola di un libro che racconta una storia fin troppo epica. Nulla di quello che è già stato scritto si può cambiare, ci è dato solo aggiungere. Che sfida aggiungere capitoli alla Divina Commedia…
Domenica sera a San Siro si scriveva una nuova frase di quel libro, come succede a ogni partita. Ma domenica sera la nostra Radice per eccellenza se ne stava lì, in panchina. Anzi stava in piedi tra, le panchine, dei suoi due figli: il Toro e il Milan. Ma io non ho dubbi chi tra i due sia sempre stato il favorito, il più somigliante, l’amato. Seguivo la partita dal bar e durante il minuto di silenzio iniziale nessuno ha ordinato neanche un caffè, c’era Radice da salutare. Quando Mazzarri è stato allontanato durante la partita, Radice si è guardato intorno e come tutti non ha capito il perché, ma poi gli ha fatto un cenno con la testa, ok, li guardo io i ragazzi. E i ragazzi del Toro sono stati in campo come il Sergente voleva: un continuo spingere avanti e alitare su Donnarumma, esserci in difesa e poi di corsa su in attacco, senza mollare finché il fiato regge, e poi ancora un poco in apnea. “Stasera non ho visto un Toro-Totale, ma un Toro-Tutto, sì. Tutto, quel che poteva” questo mi piace immaginare abbia detto Radice a Mazzarri negli spogliatoi, “bravo”.
Radice, abile soprattutto nelle ripartenze, dopo che la vita gli assestava spintoni. Radice che dopo aver investito tutto di sé per diventare calciatore, vede sfumare il futuro nel gonfiore di un ginocchio che si ostina a non guarire. Due anni passati a combattere per tornare in campo, vedendolo sempre più lontano il campo. Due anni di attesa, una sofferente ma per nulla inutile attesa, passata a osservare con attenzione i compagni talentuosi e prendere atto che loro, erano più bravi di lui nel fraseggio, nel tiro, potenza. Radice che dolorosamente capisce di avere la sensibilità per giocare in una dimensione diversa: sa individuare sempre l’uomo sotto la divisa da calciatore. È un seminatore, Radice. È un allenatore di uomini, e lui per primo non nasconde mai il suo essere uomo, prima che allenatore. Uomo con idee sulla società, sulla politica e sulle donne. Ogni volta che si siede in panchina porta tutto il suo essere uomo con sé, e lo regala ad altri uomini più giovani che si affidano al suo gesticolare consigli, gli consegnano fiducia, si lasciano guidare in un calcio che non ha mai giocato nessuno prima. Radice sa fare di tanti giocatori, una squadra. Di tanti uomini, un collettivo.
Radice che riparte dopo un devastante incidente stradale che gli strappa via dalla mani un amico grande, suo e del Toro, Paolo Barison. Radice che dopo qualche mese riparte ancora e lascia Torino, con la bocca amara di chi si vede trattato come un allenatore qualunque. Eppure Radice sapeva che col Toro era davvero, amore.
Nella vita molte persone ti possono piacere, ma poche hanno l’alchimia necessaria per farti innamorare. Anche per il calcio è così: puoi essere un campione ma non saperti regalare agli altri, e allora non sarà amore. Si avvicendano buoni giocatori e allenatori, ma pochi sanno fare innamorare. Soprattutto di Toro, così pretenzioso. Gigi Radice lo ha fatto, ha fatto innamorare, è stato questo il suo più memorabile successo.
Perché un siciliano dovrebbe innamorarsi di Toro? Perché si sono seduti uomini come Radice sulla sua panchina. Perché l’energia positiva dei valori, attrae grandiosità.
E perché un club che si chiama “Sicilia granata” dovrebbe adoperarsi tanto per far raggiungere lo stadio “Grande Torino” il giorno del derby a un ragazzino palermitano – bisognoso di conferme positive dalla vita, visto che quelle negative in ospedale le ha già viste tutte – tifoso della Juve, che sogna di entrare in campo stringendo la mano di Ronaldo?
Perché? Ma perché quei siciliani granata sono dei folli innamorati di un calcio entusiasmante di valori che fanno belli gli uomini. E quel ragazzino non può che essersi già un po’ infatuato di una tifoseria granata che se lo abbraccia in Sicilia e lo tiene stretto fino a Torino.
Io credo che la vita sia così folle che a volte ci permette di scegliere il tipo di male da cui farci invadere. L’ Alzheimer allontana lentamente dalla memoria della vita chi, la vita, l’ha fortemente amata. Immagino con dolore il nostro Sergente di ferro seduto sulla panchina a bordo campo che si lascia portare via i ricordi di ottant’anni di ripartenze. Prima perde un luogo, il Filadelfia. Poi l’abbandona il ricordo di un colore, il granata. Svanisce un grido rimbombato per anni nelle orecchie, quello della Maratona. Gli rimane tra le mani un pallone che non sa più come usare, ma che l’istinto gli fa stringere tra le braccia, un bene da cullare.
Grazie Gigi Radice, per aver fatto tanto innamorare di Toro.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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