columnist

La reputazione

Anthony Weatherill
Loquor / Torna la rubrica del nostro Anthony Weatherill

“Il calcio è straordinario perché non è fatto di sole pedate.

Chi ne delira va compreso, non compatito; e va magari invidiato. Il calcio è davvero il gioco più bello del mondo

Per noi che abbiamo giocato, giochiamo e vediamo giocare”

Gianni Brera

Da qualche settimana il programma “Non è l'Arena”, condotto con successo su La7 da Massimo Giletti, sta conducendo un'inchiesta sul mondo del calcio [inchiesta firmata dal giornalista Luca Sgarbi, ex direttore proprio di Toro News ndr], portando alla luce un sistema di tangenti versate, a importanti procuratori e direttori sportivi, da genitori, forse eccessivamente ambiziosi, desiderosi di vedere i propri figli ingaggiati come calciatori professionisti. Nell'ultima puntata, e di fronte all'ennesima scioccante denuncia, Giletti si è chiesto come mai ancora nessun organo di controllo sportivo, sindacato calciatori compreso, si fosse messo in contatto con lui per saperne di più sulle vicende che il programma di La7 sta scoperchiando. Già, perché Giovanni Malagò e i suoi commissari non si pongono il problema di una vicenda che getta delle ombre terribili sul sport nazionale italiano? Perché Damiano Tommasi, capo del sindacato calciatori e onnipresente quando si devono prendere applausi e poltrone, non reagisce con decisione di fronte ad un'evidente violenza perpetrata nei confronti di giovani calciatori?

Temo, al solito, che forse il rispetto delle regole e la purezza dello sport non siano in cima ai loro pensieri. Temo ritengano, e forse hanno ragione, che in Italia ormai la gente si sia assuefatta al malaffare e di conseguenza non vale proprio perdere tempo ad occuparsi di vicende, in fondo, di assoluto secondo piano (ma poi, mi chiedo, perché dobbiamo venire a sapere dalla stampa, e non da Malagò e Tommasi, cose risapute a noi comuni mortali? Vorrebbero davvero far intendere di non sapere?). “Say it aint'so, Joe”, “di che non è così, Joe”. Urlò, disperato, un bambino a Shoeless Joe Jackson, mentre usciva dal tribunale dove lo stavano giudicando per aver venduto, insieme a sette dei suoi compagni dei Chicago White Sox, una partita decisiva delle World Series del 1919, con lo scopo di guadagnare soldi attraverso le scommesse. Non si può capire la disperazione di quel bambino, se non si fanno due brevi considerazioni. Joseph Jefferson Jackson deve il soprannome di shoeless(“senza scarpe” è la traduzione letterale) ad un episodio accadutogli durante una partita. A Joe Jackson le scarpe nuove che aveva indossato gli avevano causato dolorose vesciche ai piedi e ad un certo punto, togliendosele e non riuscendo a indossare più quelle vecchie, il buon Joe decise di continuare la partita scalzo. Da quel giorno per tutti fu “shoeless Joe”, Joe lo scalzo. Questo episodio denotò agl'occhi del grande pubblico, l'amore sconfinato di questo giocatore per il baseball. Un giocatore, Joe Jackson, dal talento così cristallino da averlo portato ad essere collocato dall'autorevole rivista “The Sporting News” al trentacinquesimo posto nella classifica dei migliori giocatori di tutti i tempi. Charles Albert Comiskey, proprietario e fondatore dei White Sox, pagò ingenti somme per dare i migliori avvocati ai suoi giocatori, nonostante si dicesse che questi si fossero venduti la partita contro i Cincinnati Reds a causa degli stipendi troppo bassi e di premi promessi e mai ricevuti proprio dallo stesso Comiskey.

Il tribunale ordinario, per mancanza di prove concrete e per l'abilità dei costosi avvocati di Comiskey, aveva mandato assolti i giocatori, felicemente pronti per il campionato del 1921. Ma lo “Lo scandalo dei sporchi sox”(così venne chiamata da tutti i media la triste vicenda) stava avendo il potere di far vacillare le radici stesse degli Stati Uniti d'America, stava mettendo in crisi, agl'occhi della pubblica opinione, il mito del baseball come metafora della nazione americana. E questo, nonostante l'assoluzione di una corte penale, ebbe il potere di far vacillare ogni tipo di sicurezza nei proprietari delle squadre della Major League di baseball, Charles Comiskey compreso. Si decise di correre ai ripari, perché solo di una cosa ha veramente paura chi detiene potere e denaro, ed è quello di perdere ogni tipo di credibilità agl'occhi della gente comune. La gente comune può anche perdonare e trattenere l'invidia per i potenti chiusi in un Olimpo di privilegiati al quale non avranno mai accesso, ma non accetteranno mai degli dei non ottemperanti al dovere di essere dei. Gli dei delle squadre della Major League, intuendo questo pericolo, presero una storica decisione: chiedono ad un uomo dall'integerrima e conosciuta reputazione, il giudice distrettuale Kenesaw Landis, di diventare il primo capo indipendente(commissioner) della Major League. Landis, ovviamente, sapeva bene quale fosse la posta in gioco(i tifosi pretendevano credibilità dal gioco), e volle, per accettare l'incarico, che la carica di commissioner fosse a vita, perché in quel momento drammatico la gente doveva essere sicura nella sua indipendenza libera di agire per ripulire il marcio dalla Major League.

I proprietari delle squadre, sapendo di non poter fare altrimenti, accettarono la pesante condizione di Landis, il quale suo primo provvedimento come commissioner fu quello di squalificare a vita gli otto giocatori dei White Sox, andando in modo chiaro contro la giustizia ordinaria e ristabilendo in modo inequivocabile l'autonomia della giustizia sportiva rispetto alla giustizia ordinaria, ribadendo che nello sport la moglie di Cesare deve essere non solo onesta, ma deve apparire al di sopra di ogni sospetto. Charles Comiskey supportò la decisione di Landis, pur sapendo di sancire definitivamente la compromissione del nucleo dei giocatori della sua squadra. I White Sox sarebbero tornati competitivi solo quindici anni dopo, e dopo la scomparsa di Comiskey. La morale di questa storia parla di confini che non possono essere valicati, non senza compromettere uno dei valori più importanti del vivere insieme: la reputazione. Nello sport la reputazione è ineludibile, perché le emozioni provate assistendo alle competizioni sono reali e, a volte, indimenticabili. Tali emozioni segnano il tempo della nostra vita e la rendono migliore, perché sappiamo che in queste emozioni tutto il mondo, a prescindere dalle sue diversità variegate, si riconosce. Queste emozioni sono una neolingua, che consente di parlare ogni qual volta ci si incontra in un angolo di mondo dove si svolge una partita. Ma le emozioni vere hanno bisogno di cose vere, hanno bisogno di sapere che il mondo in cui si estrinsecano conservi, almeno in parte, una sua purezza originaria.

In nome di questo elementare principio, Giovanni Malagò avrebbe dovuto dare una risposta all'inchiesta del programma di Giletti. Avrebbe dovuto promettere indagini immediate, e forse avrebbe dovuto convocare una conferenza stampa per far sapere a chi prende tangenti sulla pelle dei desideri di giovani calciatori, che il capo dello sport italiano li avrebbe cercati e stanati fosse dovuto andare fino alla fine del mondo. Avrebbe dovuto convocare al Coni questi giovani ricattati, per dirgli che lui è lì soprattutto per proteggere i loro sogni. Ma tutto questo, Malagò, non lo ha fatto, e non perché tra le virtù del presidente del Coni manchi la solerzia. Fu solerte, all'indomani della nostra eliminazione dai mondiali di Russia, nel farsi invitare dall'officiante di tutti i potenti Fabio Fazio, per esprimere tutta la sua indignazione contro Carlo Tavecchio. Fu un plotone d'esecuzione in piena regola, senza nemmeno un regolare processo, che regalò agli spettatori di “Che Tempo che Fa” uno degli spettacoli più squallidi mai passati sugli schermi della televisione pubblica. Non è una difesa di Carlo Tavecchio, comunque indifendibile, ma una denuncia di sistemi da “Santa Inquisizione” non più tollerabili, anche perché i mesi trascorsi da quell'intervista hanno fatto capire che il solerte intervento di Malagò da Fazio non fu certo dettato da nobili intenzioni, ma da interessi personali di gestione del potere. Oltre ad aver favorito la paradossale elezione di Gaetano Micicchè alla presidenza della Lega A(di cui ho già parlato), il buon ex ragazzo animatore della vita by night dell'elegante quartiere romano dei Parioli, ha piazzato il fidato Billy Costacurta come commissario della Fgci. Le cronache di queste giorni raccontano come l'ex giocatore del Milan stia per scegliere il futuro commissario tecnico atto a guidare la rifondazione della nazionale italiana sepolta dalle macerie della mancata qualificazione a Russia 2018. Un commissario pro tempore dall'esperienza inesistente, che getta le linee principali di una rifondazione del calcio italiano, è una roba nemmeno da potere assoluto nella Russia zarista. E mentre il Chievo emette Bond legati alle prestazioni di un suo calciatore(certo Birsa) nell'inquietante piazza finanziaria maltese e mentre nulla si fa per chiarire l'intricata vicenda legata alla vendita dei diritti televisivi del calcio italiano, rimane solo la faccia sconcertata di Giletti disarmato dall'aver scoperto di un potere della stampa ormai inefficace e una domanda a Malagò, presa in prestito da Cicerone:”quosque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”. Fino a quando dunque, Giovanni Malagò, abuserai della nostra pazienza?

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.