“E' perverso comunque tutto ciò che è troppo”.
columnist
La settimana caotica del calcio
Lucio Anneo Seneca
In una recente intervista, rilasciata a poche ore dalla gara di Europa League contro il Salisburgo, il presidente Aurelio De Laurentis è tornato a disquisire su una possibile riforma del campionato italiano di Serie A. Ed è stata solo il primo dei segnali di un certo stato confusionario(definiamolo così per carità di patria) impadronitosi del calcio europeo nell'ultima settimana. Ma al momento restiamo sul presidente del Napoli, il quale ha addirittura prefigurato una Serie A composta da dieci squadre, elevate al rango di “franchigia”, cioè non retrocedibili dal massimo campionato italiano. Tutto ciò, secondo il nostro eroe, si è reso necessario “per rendere più appetibili ai network televisivi, e quindi aumentare il valore economico del nostro campionato, le partite della Serie A”.
Da notare come questa “rivoluzionaria”(sic) analisi del presidentissimo sia giunta in risposta alle domande velate d'angoscia dei giornalisti della stampa napoletana che si chiedevano e chiedevano se fosse possibile,da parte della società azzurra, colmare il gap economico con la Juventus. De Laurentis pensa di essere furbo nelle sue risposte, e può ragionevolmente pensarlo vista l'evidente complicità goduta da parte della stampa napoletana(e qui si dovrebbe aprire un necessario capitolo sul ruolo che dovrebbe avere la stampa. Ma passiamo oltre). L'arte semplificatoria a suo uso e consumo del presidente del Napoli, mira ad un solo ed evidente obiettivo per aumentare il fatturato del club da lui presieduto ormai inchiodato da anni sempre alla stessa cifra: diminuire gli aventi diritto alla spartizione del ricco budget messo a disposizione al calcio italiano dai network televisivi. Nella sua foga nel voler eccessivamente semplificare, il “cinematografaro” romano si dimentica volutamente come il sistema delle franchigie funziona più o meno bene in quelle società dove lo sport scolastico(sia delle superiori che in quello universitario) funziona più o meno bene, assicurando una rappresentazione sia di identità territoriale che di identità sportiva a tutta la comunità interessata alla sport. Non è questa la sede e il momento dove si può fare un analisi complessa sul come e il perché lo sport statunitense funziona con il metodo delle franchigie, ma magari in futuro si potrà fare un'accurata discettazione su tale materia. Discettazione a cui al furbo De Laurentis non importa un fico, visto che presupporrebbe una sensibilità culturale e sociale assolutamente assente nel panorama esistenziale del presidente del Napoli, evidentemente interessato all'unica vitale questione della sua presenza nel mondo del calcio: i soldi.
Non avendo lasciato nessuna traccia visibile nel mondo della cinematografia tricolore, anche se lui si spaccia per un fine e poliedrico produttore cinematografico(invito i lettori, ove mai avessero voglia e tempo, ad andare a scorrere sul sito del cinema professionale Imdb la lista dei film prodotti da questo signore), ora sta provando a lasciare una traccia memorabile(sic) sui destini del calcio italiano. Incurante della sensibilità dei tifosi della sua squadra(e assai notoria la “simpatia”intercorrente tra baresi e napoletani), ha acquisito la proprietà del Bari, in un evidente progetto economico finanziario il cui beneficio cadrà esclusivamente sulla “fiduciaria” di famiglia custodita gelosamente nelle segrete stanze di Unicredit. Ma il capolavoro della recente intervista di Salisburgo, il nostro lo ha compiuto avvitandosi nella similitudine tra tifosi e spettatori cinematografici: “qui si continua a dire che il club è dei tifosi. Giusto, noi lavoriamo per i tifosi, così come quando si fa un film si lavora per gli spettatori. Non vogliamo dispiacere gli spettatori, altrimenti perché facciamo il film?Così quando uno mette in piedi una squadra di calcio vuole piacere ai proprio tifosi. Ma tra questo e i tifosi ad essere proprietari del club ce ne passa”. Considerato che i giornalisti napoletani presenti all'intervista evidentemente non ci sono arrivati, lascio ai lettori e al loro discernimento il decidere il grado di gravità di una dichiarazione del genere. Anche perché, ancora una volta, l'obiettivo di queste parole è chiaro: trasformare il calcio in un evento spettacolo. Prendendo poi in prestito dalla politica la parola “populismo”(è avvilente, per non dire di più, quando si usano argomenti seri per i propri bassi interessi di bottega), De Laurentis ha provato ad ergersi a soggetto a metà strada tra un premio nobel per l'economia e un sociologo esperto di politiche industriali: “populisticamente(un ripasso alla forma italiana male non gli farebbe) dovremmo fare giocare tutti quanti, ma non è possibile. Ho sempre distinto tra stadio virtuale e stadio reale. Lo stadio virtuale, le televisioni, pretendono di fare audience, e lo si fa facendo giocare le squadre più forti. Sarebbe bello che qualche volta la cenerentola potesse partecipare al ballo di mezzanotte. Ma non è possibile perché quelle sono le favole. Noi dobbiamo ragionare con i piedi per terra”.
Ora, a parte il fatto che Cenerentola nella nota favola balla con il suo principe tutta la sera(quindi partecipa al ballo, caro presidente. Non tutto può essere un'opinione nella vita), sarà bene tornare a ribadire l'importanza della formula “open” per il calcio. Come questa formula, nello sport e quindi non solo nel calcio, abbia assicurato l'accadere di vere e proprie genesi leggendarie, che hanno assicurato alle vicende sportive il successo nell'animo di generazioni di persone. Lasciatemi rilevare la stranezza di un De Laurentis, uomo di cinema, non edotto della filosofia del film “Rocky”. La sua visione potrebbe spalancargli nuovi orizzonti esistenziali, aiutandolo a rivedere qualche giudizio come quello della supposta fortuna di avere Andrea Agnelli a capo dell'Eca, la sempre più potente associazione dei maggiori club calcistici europei, una persona da lui considerata molto capace nell'indicare la necessaria via esclusivamente mercantile del calcio europeo. Il prode Andrea Agnelli in questa triste settimana si è fatto promotore, per conto dell'Eca, di una proposta rivoluzionaria per riformare la Champions League. Una proposta che, in sintesi, prevede una imperitura, di fatto, partecipazione alla massima competizione europea dei club più prestigiosi con pochissimi posti, a rotazione, riservate alle squadre con meno blasone, con partite (dai quarti di finale in poi) da svolgersi nel weekend.
De Laurentis, in confronto al ragazzo di casa Fiat, è in tutta evidenza solo un'apprendista stregone. Andrea Agnelli, infatti, sta prefigurando il primo significativo scrollone al concetto di campionato nazionale in scena da più di duecento anni. L'Eca ha ordito una di quelle manovre da lasciare sbigottiti per la sua spregiudicatezza. Ha stabilito, nei suoi nuovi piani, una Champions con delle retrocessioni su modello Nation League, sperando di fornire uno specchietto per le allodole democratico ai tifosi. Ma se uno fa due conti da ragioniere, capisce subito come un campionato europeo per club con retrocessioni finirebbe per favorire i club economicamente più forti, favorendo la creazione di uno zoccolo duro che un giorno, inevitabilmente, porterà ad unico e logico sbocco: la creazione della SuperLega europea con modalità da franchigia. In questa settimana di caos calcistico si è anche assistito ad un dirigente dell'Ajax sostenere di volersi vendicare nei prossimi quarti finali di Champions della Juventus a suo dire dopata contro cui i “Lancieri” persero la finale del 1996 del massimo trofeo europeo. Dichiarazione assai grave questa di David Endt, e non solo perché cerca di farsi giustizia da solo e cerca di mettere in atto una pressione psicologica indebita sui prossimi avversari dell'Ajax in Champions, ma soprattutto perché relega al dibattito da bar dello sport un problema serio come il doping. Tutto questo senza una reazione di nessun organo sportivo europeo competente, magari più preoccupati di gesti volgari di qualche allenatore o giocatore nell'orgasmo, eccessivo, procurato da un gol. Inquieta, inoltre, il silenzio tombale del presidente Gravina, che in quanto presidente della Federcalcio dovrebbe difendere l'onorabilità di una sua squadra tesserata. Il caso del dirigente dell'Ajax e dell'intervista di Michel Platini rilasciata qualche giorno fa al Corriere della Sera, in cui si è proclamato vittima di una sentenza politica da parte della Fifa, pone qualche inquietante interrogativo: ci sarà qualcuno, nella martoriata Europa, che ancora rispetta le sentenze della magistratura e le regole della convivenza civile? Esiste in qualche anfratto coloro che hanno un'idea precisa del senso del pudore? Esiste una coscienza nella nostra classe dirigente? Ognuno, solo perché lo può fare, può davvero dire tutto ciò che gli passa per la testa? Consoliamoci, in questa terribile settimana trascorsa, con una buona notizia: Massimo Ferrero sta per cedere la Sampdoria. Non sarà male togliere un po' di pessimo cinema dal calcio italiano. Sperando sia l'inizio di una inversione di tendenza(lo so, sono un inguaribile ottimista), voglio salutarvi ponendomi un ennesimo quesito: vale ancora la pena essere una persona perbene? A voi l'ardua sentenza. Ma se guardiamo a quei carabinieri pronti a mettere a rischio il presente, la loro vita, per il futuro, la vita di 50 bambini tenuti in ostaggio su un autobus, sembrerebbe proprio che ne valga la pena. Quei carabinieri ci hanno ricordato che i soldi e l'interesse personale non sono tutto nella vita. Onoriamoli, e che nessuno pensi sia retorica.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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