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columnist
Domenica, prima dell’inizio della partita col Sassuolo, hanno mandato in onda alcune immagini di Belotti, se ne stava seduto su una panchina deserta, scaldacollo tirato su fino al naso e berretto calcato giù al limitare degli occhi, sguardo ad attraversare il campo.
Non era convocato domenica, dunque era un momento anonimo che si era ritagliato lui per stare lì, a contatto col campo.
Seguire la squadra pur sapendo che non farai neanche riscaldamento, è un modo per giocare in ogni caso. Per esserci. Soprattutto se sei il capitano, devi esserci. Dopo, durante la partita, è stato inquadrato un paio di volte in tribuna, insieme a Cairo. Il pupillo di cui la squadra si prende cura. No, non sembrava la stessa persona che prima si era persa a guardare le profondità del campo, da solo.
Cosa ci ha visto in quel campo su cui sapeva che non avrebbe corso?
Forse la partenza da Palermo per lungimiranza di Ventura, la fiducia di Mihajlovic e l’impossibilità di posizionarsi là davanti, con le direttive di Mazzarri nella testa, nell’animo la volontà-bisogno di confermarsi. Forse sul campo ha rivisto lo splendore della stagione 2016-2017, capocannoniere d’inverno per la squadra e marito per l’innamorata.
Forse sul campo gli risuonava nelle orecchie la dichiarazione perentoria di Cairo: Belotti? 100milioni di euro, nulla di meno per lasciare il Toro. E forse ha pensato a quelli che quest’estate avrebbero linciato Cairo, l’avesse lasciato andare e che ora nicchiano un: mah, l’avessimo venduto quando ancora valeva qualcosa, ora avremmo una squadra molto più forte. I disaccordo-sempre. Forse si è chiesto anche lui, quanto sia il suo prezzo al chilo, per quanto tempo la sua, potrà essere la carne migliore.
Voleva rimanere o andarsene? Un po’ tutte e due, forse.
In quello sguardo malinconico sul campo di una partita che non avrebbe giocato, forse c’erano la Nazionale e i Mondiali. I non-Mondiali. La delusione di non aver fatto la differenza. I rigori che non sono diventati gol.
Il campo del Sassuolo, l’erba calpestata da una squadra che al momento vive un’ottima forma fisica. Forse Belotti avrà pensato che del suo corpo scattante, quello delle imprendibili ripartenze, si è inceppato il complicato meccanismo. Ora ci vuole pazienza per ripartire. Così dice Mazzarri: tempo, pazienza.
In tribuna Belotti sorrideva. La vita è una sfida incessante, accettarla sotto la spinta di tante, tantissime persone che credono nella sua volontà, talento e umiltà, è un privilegio che può far vacillare, ma trovato l’equilibrio, aiuta a vincere.
Andrea Belotti domenica lo aspettiamo a casa, al Grande Torino. Che il capitano ci guidi in ogni caso contro il Benevento.
E che sorrida perché il Toro, il suo numero nove, non lo ha lasciato da solo mai.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
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