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Samarcanda
Roberto Vecchioni
dall'album omonimo (1977), Philips
Sono trascorsi quarantasette anni dalla scomparsa di Giorgio Ferrini.
Una vita calcistica in granata, 568 partite nell'arco di sedici stagioni a rincorrere uno scudetto sfiorato, una carriera conclusasi come giocatore nel giugno del 1975, proprio alle soglie dell'anno che nessun granata potrà mai dimenticare.
Attaccate le scarpe al chiodo, aveva poi intrapreso una nuova avventura da tecnico a fianco di Gigi Radice, iniziata mettendo subito le mani su quel titolo che non era riuscito a far suo da calciatore.
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Il destino era in agguato e lo colse poco dopo quella gioia, ad appena trentasette anni: una morte inopinata e crudele giunta l'otto novembre 1976, nel cuore dell'autunno nel quale la speranza di ripetere il successo era al suo culmine.
C'è una canzone di Roberto Vecchioni che racconta del fato e dell'inutile affanno dell'uomo: un soldato scorge la Morte che lo sta cercando nelle strade della capitale e si fa donare dal sovrano un cavallo per salvarsi e fuggire nel luogo più remoto del mondo, la mitica Samarcanda. Ma giunto in quella città troverà ad attenderlo proprio la Morte: il destino aveva infatti stabilito che dovesse coglierlo lì.
Il soldato è sorpreso di vedere la Nera Signora a Samarcanda, perché la credeva nella capitale a cercarlo con occhi cattivi. Ma lei gli risponde:"Sbagli, t'inganni, ti sbagli soldato, io non ti guardavo con malignità. Era solamente uno sguardo stupito. Cosa ci facevi l'altro ieri là? T'aspettavo qui per oggi a Samarcanda, eri lontanissimo due giorni fa. Ho temuto che per ascoltar la banda non facessi in tempo ad arrivare qua".
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Va così per tutti: una continua lotta soltanto per raggiungere, nessuno escluso, la nostra personale Samarcanda.
La storia di Ferrini è emblematica e terribilmente granata: la bandiera del Toro, la perfetta incarnazione del tremendismo, il capitano per antonomasia insieme a Valentino Mazzola, era destinato a morire giovane, come Gigi Meroni, come quegli altri ragazzi scomparsi ventisette anni prima.
Il cimitero di Pino Torinese, nel quale è sepolto, non è lontano da Superga: il destino sembra averlo legato, anche in questo, alla squadra che incontrò la Nera Signora in modo altrettanto drammatico ed inatteso. E' facile pensarli mentre giocano insieme, formando la più grande compagine di tutti i tempi, davanti ad uno sconfinato pubblico esultante.
C'è anche chi il cavallo per Samarcanda non lo ha cavalcato per un soffio.
Pietro Ferraris, detto Ferraris II, giocò per tanti anni col Grande Torino: vinse scudetti e si coprì di gloria. A fine carriera si trasferì al Novara, a conclusione della stagione 1947/48, quella che precedette la sciagura: chissà se la Morte gli aveva rivolto quello sguardo stupito, vedendolo allontanarsi dall'appuntamento, che arrivò invece nel 1991.
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Queste sono elucubrazioni di chi è venuto dopo e può tessere fili tra eventi scollegati, nello scorrere inesorabile dei giorni. Ci servono però per ricordare un uomo, Giorgio Ferrini, che insegnò a generazioni di giovani colleghi che cosa voleva dire essere del Toro e che, pur vedendo solo dalla panchina lo scudetto del 1976, era presente in ogni membro di quella meravigliosa squadra intrisa della sua grinta.
Il suo spirito indomabile continua a vivere nella gente del Toro, nel suo senso di appartenenza e nei suoi ricordi: Giorgio Ferrini, nel suo esserci ancora, ha ingannato la Nera Signora.
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