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STRANGE FRUIT
Autore: Abel Meeropol
Interprete: Billie Holiday
1939 - Commodore Records
Nel 1939 Billie Holiday, l'Interprete jazz per eccellenza, osò l'inosabile. Interpretò Strange Fruit, la canzone che raccontava fatti che, in quegli anni, non si potevano nominare, ascoltare e nemmeno pensare. Troppo macabra e cruda per gli orecchi dei bianchi, ai quali poteva causare un salutare rimorso, e troppo dolorosa, troppo vera per gli orecchi della comunità nera. Gli strani frutti del titolo erano i corpi dei neri linciati nel Sud degli Stati Uniti, i corpi appesi agli alberi e lì abbandonati, messaggio intimidatorio rivolto a chi non doveva alzare la testa. Brano ancor oggi non abbastanza noto, anche se tutti dovrebbero conoscerlo, almeno fino a quando gli strani frutti del razzismo continueranno a oscillare dai rami degli alberi di una parte qualunque del mondo, non solo nell'America segregazionista degli anni Trenta del secolo scorso o nei ghetti sudafricani dei giorni bui dell'apartheid, ma anche dove nemmeno ci si immagina che la malapianta potrebbe attecchire.
Nel 2001 alcuni tifosi di una squadra di calcio lasciarono lo stadio nel momento in cui un ragazzo, un diciottenne di belle speranze, esordì subentrando a un compagno, in un inutile secondo tempo di una partita ormai ininfluente. Il diciottenne si chiamava Akeem Oluwashegun Omolade. Agli occhi di quelli che, al suo ingresso, preferirono abbandonare gli spalti pur di non vederlo vestire in campo i loro colori, aveva la colpa di essere nero. Sì, avete capito bene: quelli si alzarono e se ne andarono via perché il ragazzo, quello che stava esordendo con addosso i loro colori, era nero. Era il 2001 e il fatto si svolse in Italia. Sì, avete capito bene anche questa volta: il fatto si svolse in Italia, ventun anni fa.
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Il ventunesimo secolo era già iniziato, eppure in Italia oscillarono gli strani frutti del razzismo, mossi da un vento tanto stupido quanto grottesco. Qualche giorno dopo, la squadra di Omolade giocò in casa e retrocesse. Lui scese in campo in mezzo ai compagni, che avevano tutti la faccia dipinta di nero in segno di solidarietà. Gesto apprezzabile, certo. Ma nel contempo terribile. Suonava come una riscossa, ma anche come una resa. Omolade, poco dopo, passò al Toro per giocarci solo cinque partite e calpestare l'erba della serie A. Mi ricordo che quando lo acquistammo fui contento che venisse da noi; mi parve che l'opportunità che gli veniva concessa, quella di esibirsi su un grande palcoscenico, fosse il logico risarcimento dell'affronto subito.
Il 13 giugno Omolade è morto. Da qualche giorno un fastidio alla gamba, poi il malore e la morte repentina sopraggiunta nell'automobile di un amico, mentre veniva accompagnato in ospedale. Aveva 39 anni e giorni inquieti alle spalle. La mia vita non è stata una scala di cristallo, ha scritto Langston Hughes in una delle sue liriche più famose, e ha aggiunto Ma ho sempre continuato a salire. Voglio ricordarlo con queste parole, Omolade, ora che per lui la catena della vita si è spezzata e ha terminato la salita della sua breve scala di legno tarlato con dentro i chiodi e piena di schegge, per dirla ancora con i versi del poeta. Noi che restiamo, sappiamo che il razzismo non si esaurì nello squallore del gesto che lo coinvolse nel 2001. Rimane in agguato, ogni giorno, in ogni luogo. Sempre in bilico tra perbenismo e bestialità, tra qualunquismo e supponenza. Non dimentichiamolo: questa consapevolezza è il più bel fiore che possiamo offrire ad Akeem
Autore di gialli, con "Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri" ha vinto l'edizione 2020 di GialloFestival. Marco P.L. Bernardi condivide con il protagonista dei suoi romanzi l'antica passione per il Toro e l'amore per la letteratura e la canzone d'autore.
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