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Tre ragazzi ghanesi per un colpaccio mancato
Africa, Toto 1982 - Columbia
Ci siamo. Tra poche ore inizierà la Coppa delle nazioni africane. Il ritornello della hit dei Toto, milioni di copie vendute e dischi d'oro e di platino collezionati nel mondo, risuona nella nostra memoria non appena il continente culla dell'umanità torna a farci sognare avventure e spazi immensi. Si alzerà il sipario e la Costa d'Avorio, padrona di casa, sfiderà la Guinea-Bissau. Poi, per quasi un mese, si succederanno le altre sfide che decreteranno, il prossimo 11 febbraio, la squadra regina d'Africa.
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Assisteremo a grandi match: il calcio africano è ormai maturo per generare la compagine in grado di sovvertire le gerarchie e prendersi lo scettro di più forte del pianeta. E' più di un'eventualità: il Marocco ci è andato vicino nel 2022 in Qatar e ad ogni mondiale si fa più intensa la sensazione che le grandi nazionali, quelle cariche di storia e di successi, stiano per abdicare a favore di una nuova superpotenza calcistica. Tifare perché una squadra sfavorita travolga le attese è fisiologico, soprattutto per chi come noi, cuori granata, per i favoriti proprio non riesce a parteggiare. Eppure il calcio africano è stato a lungo avvolto nel mistero e ammantato di un alone tra l'esotico e il pittoresco. Emergeva di tanto in tanto dall'oblio in occasione dei Mondiali, specialmente se qualche giocatore la combinava grossa.
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Chi non ricorda il difensore dello Zaire che nel 1974, con la sua squadra sotto di tre goal, calciò alla rovescia una punizione fischiata a favore del Brasile, uscendo dalla propria barriera e rifilando una pedata clamorosa al pallone? Evento quasi comico di cui si parlò a lungo ridacchiando, finché non venne fuori che, con quel gesto, il terzino aveva probabilmente salvato la pelle sua e dei propri compagni, minacciati di morte del dittatore del loro paese in caso di sconfitta con più di tre reti di scarto. Personalmente non riesco a scordarmi di François Zahoui, centrocampista di nemmeno vent'anni che nel 1981 l'Ascoli di Costantino Rozzi fece arrivare proprio dalla Costa d'Avorio, pagandolo pochi milioni di lire dell'epoca, e garantendogli uno stipendio da minimo sindacale pallonaro.
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Lui non se la prese: ad Ascoli si trovava bene ed era amato dai tifosi. Nonostante che, in due stagioni trascorse nelle Marche, avesse racimolato solo poche comparsate anonime, il ragazzo rimane nella memoria di tutti gli appassionati del calcio di una volta, quello che nemmeno coi milioni dei grandi investitori attuali potrà essere ricreato. E' stato il pioniere del football africano nel Bel Paese e, come tutti i pionieri, ha avuto coraggio: partire da casa, dove oltre a giocare a calcio faceva l'operaio, per cimentarsi con la serie A italiana in cui erano arrivati nomi del calibro di Joe Jordan e Daniel Bertoni ed imperversavano Pruzzo ed Edi Bivi, per tacere dei nostri Dossena e Pulici, necessitava di una grande dose di fegato mista a una spruzzata di irruenza giovanile. Dopo di lui arrivarono dall'Africa nel nostro campionato tanti altri giocatori, alcuni fortissimi, altri semplici meteore. Qualcuno si legò ai colori granata, con alterne fortune. Chi si ricorda del terzetto con il quale tentammo il colpaccio? Vi dicono qualcosa i nomi di Kuffour, Gargo e Duah, i tre ragazzi ghanesi campioni del mondo under 17 che Borsano fece sbarcare nel 1991 a Torino, assumendoli come fattorini?
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Purtroppo fu un tentativo vano, un'opportunità buttata alle ortiche: nessuno dei tre esordì mai in prima squadra, anche se si trattava di autentici talenti in prospettiva, destinati -ahimè- a fare carriera in altri club. Sarebbe stato bello applaudire un Toro con quei tre in rosa: se ci fossero stati a formarne l'ossatura, a cavallo tra la metà degli anni Novanta e il decennio successivo, forse quel periodo sarebbe stato meno negativo. Con i se e con i ma non si fa la storia e non lo sapremo mai: per fortuna, poco dopo la loro partenza per altri lidi, il Ghana ritornò prepotentemente a legarsi alla nostra squadra con l'arrivo di Abedi Pelé. Ma questa è una storia di cui abbiamo già parlato.
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