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Poteva essere discutibile come allenatore, e su queste colonne lo criticammo anche con toni forti. Aveva i suoi bei difetti anche come persona, al pari di ogni altro uomo sulla faccia della terra. Ma Mihajlovic era Mihajlovic, dietro e davanti alle telecamere. Agiva e parlava senza filtri, era sé stesso sempre. Era quello che si vedeva e non era un ruffiano.
Confessiamo che ci capitò di pensarlo quando lo vedemmo salire con stampa e fotografi al seguito a Superga il giorno della sua presentazione come allenatore del Torino. Capimmo solo in seguito che ci sbagliavamo di brutto: quello era il suo modo per respirare il senso di appartenenza alla nuova realtà e per far capire ai tifosi che si sarebbe impegnato per renderli orgogliosi di quello che sarebbe stato il suo Toro.
La gente granata ha apprezzato Mihajlovic, persino al di là di quelli che sono stati i risultati sportivi, e lo ha sempre ricordato con piacere anche dopo il burrascoso esonero di inizio 2018. Il legame era rimasto, anche da parte sua, un po’ perché il suo primo Toro faceva divertire (indimenticabili in particolare due vittorie contro Roma e Fiorentina). Ma soprattutto perché molte caratteristiche dell’uomo Sinisa si sposavano bene con ciò che fa parte dell’immaginario collettivo riguardante il Toro.
Questo lo ha dimostrato perfettamente con il modo con cui ha affrontato la leucemia: sempre a testa alta, senza paura di mostrarsi debole, con grande voglia di continuare la vita di prima per quanto era possibile e di essere un esempio per chi era nelle sue stesse condizioni. Sinisa Mihajlovic entra a far parte del pantheon del Toro anche se lo ha allenato solo per un anno e mezzo, perché un pezzo del suo cuore è rimasto granata. “La vita è fatta di salite e di discese, poi ci sono le buche improvvise. Si può cadere, ma bisogna assolutamente avere la forza di rialzarsi”. Già, caro Sinisa: non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta.
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