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Lido Vieri. «Eravamo angeli»
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Oggi tocca a Gianni Ponta, 64 anni, chimico in pensione, con - finalmente - tempo libero per seguire il nostro Torino. Ne è tifoso dal 26 marzo 1972, dal derby indimenticabile della punizione di Sala e della rete di "Cotenna" Agroppi. Fede trasmessa dallo zio Ezio, che vide giocare il Grande Torino. Era a Genova nella mitica partita giocata in 10 nel secondo tempo, per il ritorno anticipato a Vercelli di Ferraris II.
8 novembre 1997. Torino-Cagliari 3-0, tripletta di Claudio Bonomi, Gigi Lentini incontenibile. Allo stadio Delle Alpi, lungo la linea laterale, in piedi sotto il settore Distinti, uno spettatore elegante, l'impermeabile sulle spalle, la sigaretta sempre accesa, segue la partita, come fosse a teatro. Sembra guardare più spesso Pastine, il portiere granata, che lo sviluppo del gioco nel suo complesso.
Quello spettatore speciale è Lido Vieri; Pastine lo ha cresciuto e lanciato lui. Come, qualche anno prima, ha portato in Serie A Luca Marchegiani. Attraverso allenamenti mirati, ad esempio l'uso di barriere mobili per abituare il portiere all'effetto sorpresa, o il passaggio improvviso della palla da bloccare ad occhi bendati per accrescere la sensibilità.
Prima di essere un talent scout ed un innovatore dell'allenamento di portieri, Lido Vieri è stato il portiere del Torino degli anni difficili, quelli di Giorgio Ferrini e di Luigino Meroni per intenderci. Anni che hanno coinciso con la prima retrocessione e con il ritorno immediato in Serie A, con la terza Coppa Italia, ma soprattutto con la transizione verso una rinnovata grandezza, colta poi dal Torino nei fantastici Anni Settanta. Arrivato quindicenne a Torino nel 1954, stipendio settimanale mille lire, vitto e alloggio forniti dalla Società. La domenica allo stadio gratis. Portiere del Torino, Bob Lovati, tra i pali della Juve, Giovanni Viola.
Premio Combi quale miglior portiere nel 1962-63. «De profession bel zoven», come lo apostrofava Nereo Rocco, Lido aveva tutto. Coraggio, colpo d'occhio, agilità. Un senso estetico che per lui rappresentava il modo di vivere il ruolo: non solo la parata, ma un intervento bello, per la platea. E l'uscita proteso in tuffo sui piedi dell'avversario lanciato a rete, con rischio massimo. Così ne ha disputate di partite con un dito lussato legato all'altro, anche perché nei primi anni di carriera i palloni, specie se bagnati erano... mattoni.
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Dai tifosi viene lucidato nuovamente con il soprannome di "Pinza", già usato per Bodoira vent'anni prima. Lido usa solo raramente guanti di lana, in caso di pioggia; para a mani nude, per avere la massima sensibilità nella presa.
«Volavamo, eravamo angeli», mi disse in un tardo pomeriggio sul campo di Epinel ai piedi della Grivola, al termine di un allenamento nel quale aveva messo a dura prova le capacità atletiche di Luca Bucci.
Ha fatto parte della Nazionale, vinto lo scudetto 1970-71 con l'Inter, ma casa sua è stato il Filadelfia.
FVCG
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