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columnist
Perdere a San Siro con l’Inter è una cosa che nel calcio ci sta. Perdere con l’Inter di De Boer in piena crisi, magari un po’ meno. Ed infatti a tre minuti dalla fine il punteggio era sull’uno a uno e solo una prodezza di Icardi ha fatto scivolare il punticino che Mihajlovic si stava portando a casa dalla parte di De Boer moltiplicandolo per tre. Una sconfitta che non cambia di una virgola il campionato del Torino, decisamente buono fino ad ora, ma una sconfitta che, unitamente a parte della prestazione con la Lazio, deve far riflettere su cosa vuole essere il Torino nell’immediato futuro e su quanto si sia già fatto per farlo diventare tale.
Non so se l’ho notato solo io, ma a partire dal vantaggio di Iago Falque con la Lazio il Toro di Miha ha smesso di essere arrembante per trasformarsi in una squadra di palleggiatori dedita al fine fraseggio, col risultato che ha snaturato la sua nuova natura e si è paradossalmente riscoperto ancora troppo simile al compassato Toro venturiano. Senza farne una questione di risultati, il mio primo pensiero al riguardo è stato: “Ridatemi il Toro di prima della Lazio!” Sinceramente non sono così ansioso di vedere una repentina maturazione di questa squadra, non smanio per vederla capace di gestire ritmo e risultati o di speculare su forze e uomini. O per lo meno non ancora. Voglio ancora godermi un Toro che aggredisce selvaggiamente e attacca all’arma bianca. Ne ho ancora bisogno! Magari nel girone di ritorno, quando sarò sazio di ritmo, ripartenze, adrenalina e intensità varie, allora mi rimetterò il vestito da tifoso ragioniere e comincerò a fare la spunta di infortuni, squalifiche, forze fresche, scontri diretti e punti utili per arrivare all’Europa League. Fino ad allora vorrei vivere questa parte di campionato in maniera più leggera, godendomi il fatto di essermi riconciliato con quella serie di caratteristiche che da sempre fanno del Torino “il” Toro.
Un’altra cosa che mi angustia un po’ è la sensazione che questa “involuzione” granata sia in parte concisa con il rientro in squadra di Ljajic. Non ci sono prove oggettive di cosa sto sostenendo, però il giovane Boyè pur garantendo colpi tecnici notevoli abbinava anche tanta quantità ed esuberanza che forse sgravavano un po’ di questo peso lo stesso Belotti rendendolo più lucido in zona gol. Il fantasista serbo è un giocatore di classe superiore, ma, fondamentalmente, è un esteta anarchico a cui viene difficile sacrificarsi per la squadra. Sono i classici giocatori che fanno arrabbiare perché magari scappano dal campo per un attacco di diarrea, ma al tempo stesso si procurano e realizzano con freddezza rigori che valgono punti in classifica. Il pacchetto è questo, pro e contro compresi, prendere o lasciare. Il problema, se vogliamo chiamarlo cosi, è che per alzare il livello competitivo del Toro i Ljajic servono eccome, c'è poco da fare. Questo tipo di giocatore rimarrà croce e delizia di tecnico e tifosi, ma quello che può fare la differenza è l'ambiente circostante: società forte e determinata che sa imporsi quando serve e tifoseria matura e pronta per un salto qualitativo negli obbiettivi possono essere "l'habitat" ideale per i giocatori talentuosi, ma discontinui, quelli, per capirci, che vengono scartati dalle big, ma che possono trovare nel Toro il clima giusto per dare il massimo trascinando la squadra ad altezze inusuali.
San Siro ha sentenziato che c'è ancora molto da fare. Per Mihajlovic, per Ljajic e per tutti gli altri. Adesso ci aspettano cinque partite (abbordabili) da giocare alla morte per arrivare al derby non con l'idea di giocarsi la partita dell'anno per poi vivacchiare, ma con una posizione di classifica nobile che incuta il giusto rispetto nella fin troppo altera controparte. Questo sì che sarebbe già un bell’obbiettivo intermedio: la giusta cartina tornasole dell’effettivo cambiamento sul quale si sta basando la stagione del Torino.
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