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Lo sport, il cinema, il cuore della memoria

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Nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: "Bull Durham, Field of Dreams e For The Love of The Game è la trilogia sul baseball..."
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

E’ incredibile come i bambini si adattino alle superfici disponibili

Don De Lillo

Bull Durham, Field of Dreams e For The Love of The Game è la trilogia sul baseball interpretata da Kevin Costner. Sono tre bei film(il primo dedicato al tormento struggente del gioco, il secondo alla memoria del gioco, il terzo allo scorrere inesorabile del gioco), in cui l’attore californiano ci porta dentro il significato ultimo dello sport, cogliendoci sempre di sorpresa sulle tante finestre improvvise aperte sul cuore e l’anima dell’America. Non importa se non capisci niente di baseball, perché alla fine della visione di queste tre autentiche perle in celluloide, ti sembrerà per un attimo essere lo sport più bello e affascinante del mondo. E’ il potere che il cinema ha, quando sfiora le emozioni più recondite come fossero tasti di un pianoforte adibito a suonare le migliori melodie. Amo i film sullo sport perché sono profondi e leggeri, e anche quando sono venati di drammatico sai che in fondo al tunnel del tormento alla fine troverai sempre la luce. Lo sport non è nato per mettere in croce, non è un “Golgota da salire in mezzo a patimenti e abbandoni, esso è il racconto eterno delle nostre paure e delle nostre speranze. E poi è come se fossimo ogni volta, nel vederne le gesta, riportati in quel luogo della nostra psiche in cui è riposta sia l’infanzia che la nostra ingenuità. Fu questo stato delle cose a convincere Brian Cox, il patriarca/editore della serie culto “Succesion” (vincitore di una quantità industriale di premi e in Italia distribuito da “Sky”) e con cui a breve tornerò a lavorare, a interpretare “Believe”, un film da me sceneggiato, e  così contribuendo grazie alla sua adesione a sbloccare i finanziamenti per la sua produzione: “Matt Busby è stato l’idolo calcistico della mia gioventù, orgoglio della Scozia intera. Nel tuo copione l’ho ritrovato, e ho ritrovato me stesso senza i capelli bianchi e con la gioventù intatta”.

Quando mi disse questa cosa, pensai al fatto come lo sport possa essere un elisir dell’eterna giovinezza dei nostri sentimenti; uno scoglio o un faro dai quali è impossibile spostarci, perché è il nostro battito di cuore primigenio, quello che non si scorda. La rinascita non manca mai nella narrazione sportiva, abile nel farti credere che non c’è cenere da dove non si possa riattizzare un fuoco. “The Rookie” con uno stralunato Dennis Quaid e “Invicible” con Mark Wahlberg che per il 50% del film sembra il ritratto dello “sfigato per sempre”, sono acqua pura uscita dalla roccia dei miracoli, gridando con tutta la voce in corpo: “I Want You”! A volte non ci si rende conto dell’evento sportivo ad esaltare un momento particolare di un tempo, come in “Miracle” dove si narra l’incredibile affermazione alle Olimpiadi Invernali del 1980 della squadra statunitense di hockey su ghiaccio contro l’invincibile Unione Sovietica. Memorabile è la scena dei giocatori americani che percorrono un corridoio con le pareti “arredate” dai telegrammi provenienti da tutti gli Stati Uniti per esprimergli felicità, fiducia e ringraziamento. Con un durissimo shock petrolifero in atto, con una disoccupazione all’11% e una inflazione al 13.5%, quella vittoria  olimpica, in uno degli sport più amati nel Paese, fu il segnale che ci si poteva riprendere. E che dire di “Invictus” di Clint Eastwood, un racconto snodato in una SudAfrica bianca sotto shock e in quella nera pronta alla vendetta a causa dell’Apartheid subito, ma con un profetico Nelson Mandela ispirato dalla vigilia della Coppa del Mondo di rugby. A tal punto da convocare al palazzo presidenziale Francois Pieenar, capitano degli “Springboks” per chiedergli: “è possibile vincere la Coppa Mondo? Sarebbe una grande opportunità per il nuovo corso sudafricano”. Il cinema con la sua tecnica al servizio dell’immaginazione, i suoi rimandi che fanno avanti indietro dal cuore alla realtà, entra nello sport e sfoglia la margherita delle possibilità dello stupore. Se nel cinema americano il genere sportivo è parte importante della propria offerta, in Italia, e anche in tutto il sud dell’Europa, non pare essere in grado di mostrare sussurri interessanti a livello produttivo, il che è alquanto strano se si tiene presente come almeno il calcio sia un fenomeno mediatico e sociologico di notevole importanza. Sembra quasi nessuno voglia prendersi la responsabilità di confrontarsi con la cronaca del mito, forse per paura di andare ad urtare la suscettibilità dei campanili. Da noi lo sport sovente divide invece di unire, e comunque, a scorrere i commenti sui social, pare più attirare il torbido che non l’aspetto del mito.

C’è sempre dietro un “Grande Vecchio” a cospirare dietro un rigore non dato e un fuorigioco di mezzo avambraccio, e si capisce come sia difficile per un autore di cinema proporre ad una Nazione culturalmente scettica il racconto della celebrazione di una vittoria o di una rinascita attraverso lo sport. Siamo tifosi più che innamorati dello sport, e totalmente alienati dal culto del mito. Dimentichiamo in fretta gli eroi di ieri, e se provassimo a chiedere ai nati del nuovo millennio chi sia Enzo Bearzot, probabilmente non avremmo nessuna risposta. Il cinema nostrano con lo sport non è capace di farsi evento e cultura, non riuscendo, per esempio, a connettersi con il mondo produttivo tedesco per pensare ad una opera audiovisiva su Michael Schumacher che riporta in Italia il titolo mondiali piloti guidando una Ferrari. Sarebbe un fantastico racconto, con scene ad effetto girate sul mare in piena dinamica da regata(penso ad un tocco registico come quello di un Stefano Sollima), quello del “Moro di Venezia” che nell’estate del 1992 vince la “Louis Vuitton Cup”, andando così a contendere l’America’s Cup ad “America” di Bill Koch. L’avventura del “Moro” è il canto del cigno del “corsaro” di Ravenna, siamo alla vigilia di Mario Chiesa e dell’inizio del ciclone di “Mani Pulite”. Appena un anno dopo l’Italia quarta o quinta potenza industriale mondiale non esisterà più, e Gardini concluderà la sua vita suicidandosi in un bel palazzo milanese. Abbiamo tanta di quella storia da ricordare che forse la cosa ci ha fatto venire un pizzico di nausea, e quindi abbiamo cominciato a rimuoverla. Troppo ingombrante, o troppo complicata nel doverne rintracciare elementi unitari. Temo dalle nostre parti si sia preso l’elemento socio/culturale più cinico della postmodernità, ovvero quella forsennata ansia di consumare avvenimenti senza fermarsi un attimo a sentire la necessità di pensare.

Probabilmente siamo troppo arrabbiati per soffermarci sulla necessità del mito per la nostra educazione sentimentale ed esistenziale, e il cinema segue questa nostra anomia assecondandola. Albert Camus, Premio Nobel per la Letteratura, insegna come il calcio sia periferia che sogna di farsi Impero, l’occasione di una vita grama di luci della ribalta di entrare nel racconto immortale delle pietre senza età, diventando così mitologia di ogni tipo di racconto orale sobrio dall’etilismo sbilenco da bar. In “Underworld”, Don De Lillo in novecento pagine ci racconta la storia americana che da va dagli anni cinquanta alla fine della “Guerra Fredda”, attraverso il passaggio di mano in mano di una palla da baseball. La palla da baseball è il simbolo del desiderio di opporsi alla disgregazione in atto di un Paese, rappresentazione di un passato che non c’è più, di un tempo ormai inafferrabile. Lo scrittore americano riprende le tematiche dello splendido e delicato “Field of Dreams”, dove Kevin Costner rade al suo suolo interi acri di coltivazioni di pannocchie, unico sostentamento economico per lui e la sua famiglia, al fine di costruire un campo da baseball per attendere “lui che tornerà”. “Ho nostalgia dei giorni del disordine”, scrive De Lillo in “Underworld”, e si capisce come quella palla di un “Fuori Campo” di una leggendaria partita tra i “Giants” e i “Dodgers” del 1951, sia stato il mito che gli ha fatto accettare la paura di una guerra nucleare e di un’America drammaticamente incerta scritta e riscritta come su di una lavagna. Ripenso al mio camminare adolescenziale sulla via principale della mia città un tardo pomeriggio di primavera del 1976, e un mio amico che gridando da lontano blocca per sempre una delle linee temporali più significative della mia esistenza: “Carmelo, il Toro ha vinto. Siete Campioni d’Italia”! Ha ragione De Lillo: “…il passato non smette mai di succedere, al momento che passa”. Forse dovrei avere il coraggio di fregarmene dello spirito del tempo italico, e provare a fermare quella linea temporale in una sceneggiatura. Sì, forse un giorno lo farò.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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