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Lo stupore di Pavel Nedved

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Loquor / Hanno un curioso sapore narcisistico queste parole rilasciate da Pavel Nedved subito dopo l’ultimo derby di Torino
Anthony Weatherill

“Spesso è più sicuro essere in catene che liberi”

Franz Kafka 

“E’ strano vederlo all’Inter. Lui è un professionista, forse non è stato juventino”. Hanno un curioso sapore narcisistico queste parole rilasciate da Pavel Nedved subito dopo l’ultimo derby di Torino. E’ l’improvviso sfogo di un uomo convinto di essere tanto in alto, da restare incredulo di una sua ex  donna appena lasciata malamente sul ciglio di una strada, subito avvinta dall’amore nelle braccia di un altro. Forse immaginava Giuseppe Marotta, per gli amici “Beppe”, chiuso in casa in preda a furiosa depressione per essere stato cacciato dalla corte imperiale bianconera. Nella mente superomista di un giocatore ceco nato e vissuto a pochi chilometri dal confine con la Germania, intrisa di cultura “Sturm und Drang”(tempesta e impeto), non deve essere stato facile trovare un senso logico nella scelta di Marotta di legare i suoi destini professionali all’Inter.

“Il sentimento è tutto!”, esclama il Faust di Goethe, lasciando intendere che alcuni pulsioni, e le conseguenti scelte, hanno la sostanza delle cose inderogabili. In questa esclamazione del Faust c’è tutta la Germania moderna, storicamente onnipresente nell’antica Boemia da sempre intrinsecamente legata al mondo ideale della cultura teutonica. La contaminazione con la cultura tedesca è così presente, che la città dove è nato Nedved, Cheb, può essere chiamata addirittura con un nome tedesco(Eger). E i tedeschi, si sa, hanno tanti difetti ma non quello di non essere chiari su ciò che vogliono e le modalità con le quali intendono ottenerlo. Ecco perché, con tutto il candore e la brutalità delle persone determinate e assunte nell’Olimpo della forza, l’ex giocatore ceco ha trovato surreale scoprire in Marotta un uomo dedito al suo lavoro professionale, più che alla causa bianconera.

“I grandi manager non sono tifosi”, ha sentito il bisogno di sottolineare ad Urbi et Orbi l’attuale vicepresidente della società bianconera, ammettendo così, in una singolare eterogenesi dei fini, una grande verità del calcio contemporaneo: non sono i colori delle maglie a “comprare” la nostra fedeltà, ma piuttosto i munifici bonifici regolarmente accreditati su conti correnti sempre più ricchi. C’è un che di richiamo romantico alle radici del calcio, le cui fortune si rifanno alle sintomatologie da “Ragazzi della Via Pal” o alle logiche contradaiole del “Palio di Siena”, in questa frase piccata di Pavel Nedved. L’illustre pallone d’oro ceco non si è evidentemente reso conte, accusando Marotta di infedeltà ai colori bianconeri, di aver fatto un involontario attacco al sistema calcio contemporaneo, di cui il suo illustre datore di lavoro è  tra i principali alfieri. Non si è nemmeno reso conto di aver fatto autocritica di tutta la sua storia personale. Infatti il buon Pavel ha una storia di “salti della quaglia”, da essere secondo solo a Bobo Vieri e a Zlatan Ibrahimovic.  Il nostro eroe, dopo essersi formato nelle giovanili del Viktoria Plzen, esordisce nella massima serie calcistica della Cecoslovacchia con la maglia del Dukla Praga, per poi passare l’anno seguente allo Sparta Praga.

“Perché Praga- come ebbe a scrivere Borges-è piena di sogni persi in altrettanti sogni”, e Nedved è sempre stato molto attento ai suoi sogni(ma forse dovremmo chiamarle ambizioni, che poi sono una variante non sempre edificante dei sogni). Qualcuno ha anche scritto di Praga come un arcano, e chissà quale arcano spinse Nedved a lasciare la Lazio per la Juventus, dimenticandosi in un istante di essere stato per cinque anni l’idolo della tifoseria biancoazzurra. All’epoca sicuramente non si pose il problema se essere un giocatore/tifoso o un giocatore professionista, seguì l’innato istinto del vantaggio da sempre prospettate dalle nuove opportunità. Ma all’epoca era solo un ragazzo sulla via di perdere quella purezza, che dopo la caduta del Muro di Berlino lo aveva trascinato per le vie di Praga, insieme ad altri suoi concittadini, agitando rumorosamente mazzi di chiavi per  far capire al vecchio regime che era tempo di andarsene. Il ragazzo dell’antica Boemia si apprestava a diventare il giocatore preferito di Umberto Agnelli, che aveva per lui un’empatia di carattere familiare. Ed entrare stabilmente  nella galassia affettiva della famiglia Agnelli, deve aver sortito in lui una sorte di mutazione genetica di tutte le sue convinzioni. E’ incredibile, infatti, oggi scoprirlo addirittura tifoso della Juventus, e sentendolo parlare sembra avere davanti una persona cresciuta sotto l’ombra della Mole Antonelliana piuttosto che tra le vie della città praghese mirabilmente descritte nelle pagine di Franz Kafka. Ma in questo viaggio nelle contraddizioni “nedvediane”, desta stupore il suo approvare l’acquisto di Cristiano Ronaldo, ovvero una delle colonne portanti della prestigiosa storia del Real Madrid.

Sarà stato CR7, anche solo per un lungo istante, tifoso del Real Madrid? Oppure Nedved, in una chiacchierata confidenziale con il giocatore portoghese, avrà scoperto che sin dai tempi della sua cameretta di infante nella sperduta isola di Madera, aveva i poster di Trapattoni, Vialli e magari persino Roberto Bettega? Forse siamo vicini ad ipotizzare un vero scoop giornalistico, perché Nedved, con le sue improvvide dichiarazioni su Marotta, ha svelato al mondo le vere strategie di ogni mercato bianconero: assoldare alle proprie dipendenze solo coloro che possano dimostrare di essere tifosi della Juventus. Sembrerebbe essere una questione di dna, e non di soldi. Ma il giocatore/tifoso uscito dalle strategie sportive della Juventus, cosa dovrebbe fare a quel punto? Smettere di giocare? Ma no, Nedved e la Juve in fondo non sono così pretenziosi; basterà che Simone Padoin abbia cura di accasarsi in una società, il  Cagliari, assolutamente non concorrente con i legittimi(sic) interessi bianconeri. Ma con Paul Pogba come la mettiamo, signor Nedved? Dalle dichiarazioni del suo capo Andrea Agnelli, si ha la sensazione che il forte centrocampista francese si sia sacrificato, in quanto giocatore/tifoso, al ruolo di bancomat per un prelievo di 110 milioni di euro direttamente dalla ricca cassa continua del Manchester United.

“Era arrivata l’ora di andare”, dichiarò nell’estate 2016 il fuoriclasse francese, in un commento malinconico/letterario da personaggio di un romanzo francese ambientato tra le ghigliottine della rivoluzione del 1789, con la presa della Bastiglia da 110 milioni di euro a favore della Juventus. Ma i giocatori/tifosi della Juventus sono così, sempre pronti ad immolarsi per la causa. Padoin e Pogba ovviamente non si sarebbero mai permessi di andare a giocare per l’Inter, non ne avrebbero avuto proprio lo stomaco. Perché nella vita, secondo il Nedved pensiero appena emerso in questi giorni, non sono importanti i soldi ma l’appartenenza. Forse per questo Aurelio De Laurentis non ha mai voluto ingaggiare Ciro Immobile, che avrebbe dato l’anima e anche qualcosa di più per giocare nella squadra della sua città. L’esperienza di Fabio Quagliarella, a De Laurentis, deve essere bastata, tanto da sbolognare rapidamente il giocatore/tifoso bianconero. Comunque, sia Quagliarella che Immobile, mai hanno avuto l’intenzione di accasarsi all’Inter o al Milan. Sicuramente è una rappresentazione inverosimile quella fatta fino adesso, ma le parole del dirigente juventino su Marotta forse giustificano in parte questa atmosfera surreale nella quale mi sono fatto avvinghiare. Probabilmente non c’è nessun orizzonte esistenziale o ideale nelle parole di Nedved. Probabilmente c’è solo paura di un dirigente assai capace, e scaricato malamente e repentinamente dal suo capo, approdato nella società  avvertita storicamente dalla Juve come sua vera rivale. C’è il timore che i soldi di Suning utilizzati dal talento di Marotta possano finalmente porre un argine ad uno strapotere juventino diventato ormai oggettivamente imbarazzante per tutto il calcio italiano. C’è stato, da parte di Nedved(e sicuramente condiviso con Andrea Agnelli), un esprimere un concetto improvvisamente venuto fuori in modo palese: forse licenziare Marotta è stato l’errore più grave mai commesso dal rampollo di Umberto. Si tratta di soldi, potere e ambizioni, quindi, e non di un supposto sentiment da tifoso narrato dal vicepresidente della Juventus. Gli unici tifosi sono quelli che, per ragione semplicemente di amore incondizionato, mettono e non prendono soldi dalle società per cui tengono. Gli unici tifosi sono quelle persone che vorrebbero qualche giovane cresciuto nelle giovanili giocare per i loro colori, e che mai avrebbero una ragione per mettersi a tifare per qualcun altro. Un antico detto ceco recita che “nel vaso di Pandora dell’universo non è stato celato altro che il tempo”. Se lo ricordi Nedved quando arriverà domani e, probabilmente, il suo vento cambierà ancora. Buon natale a tutti.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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