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“Qualcuno è convinto
che i soldi parlino”.
Charles Bukowski
E’ un classico una tardo pomeriggio plumbeo inglese, quello “fermato” da una istantanea scattata davanti al “St James Park”, casa del Newcastle United. I tifosi in procinto di entrare all’interno dello stadio sono solo la cornice e lo sfondo del vero oggetto posto in primo piano della foto: tre ragazzi di origine araba (o forse proprio cittadini arabi in trasferta) tengono con le loro mani una bandiera triangolare verde con una scritta araba, vergata rigorosamente da destra a sinistra a caratteri bianchi e con una spada sempre di color bianco sottostante. “Non c’è altro Dio che Allah: Maometto è il messaggero di Allah”, è la traduzione della scritta bianca e la bandiera è quella dell’Arabia Saudita. La spada pare qualcosa più di un monito, ai più allarmisti difensori della cultura occidentale potrebbe sembrare addirittura una promessa. I tre giovani arabi si fanno fotografare, scuotendo ripetutamente e orgogliosamente la bandiera, sotto l’insegna “Newcastle United” con accanto lo stemma del club delle “Magpies”, e nella cultura mediterranea ciò vuole dire una sola cosa: tutto questo che vedete e ciò che vi apprestate a vedere all’interno dello stadio è roba nostra e di Allah, che tutto sente e tutto vede. Il grande e il piccolo, l’evidente e il celato, il visibile e l’invisibile. Non importa se voi non ci credete, perché tanto ci crediamo noi e noi siamo quelli che paghiamo. Sono venuti nella Vecchia Europa, gli arabi, e si sono messi a giocare con le regole del denaro “piglia tutto”, in occidente definito “libero mercato”, incuranti del loro bagaglio arcaico della “Sunna” e della “Scia”. Lo hanno momentaneamente messo da parte tale bagaglio, e distribuiscono denaro a pioggia per ubriacare i desideri degli europei, alla stessa stregua di come i colonizzatori del “Nuovo Mondo” facevano con i “Pellerossa” distribuendo loro valanghe di ettolitri di “acqua di fuoco” di pessima qualità. Non servono sempre cannoni e bombe per radere al suolo una cultura, basta rovesciarle addosso una valanga di miraggi artificiali.
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“Non importa da dove arrivino i soldi, basta che ci siano”, è il leit motiv della storia europea degli ultimi trent’anni, e la “Premier League” vi si è adattata sin dalla sua nascita, modificando a passo lento e inesorabile la storia sociale del calcio inglese. Si spiega così la recente votazione a favore del non vietare i prestiti dei giocatori dei club associati durante la stagione in corso. Si tratta di una vittoria storica per club come il Manchester City (associato al “City Football Group”, un conglomerato di dieci club, tra cui il Palermo, è un fatturato da 650 milioni di sterline con perdite stimate intorno ai 55 milioni) e Newcastle United (associato al fondo “PIF”, attualmente proprietario di cinque club), con la possibilità, proprio grazie alla nuova disposizione passata per un voto, nel mercato di gennaio di portare in Premier per un periodo transitorio, a costo praticamente zero e senza nessuna trattativa, gente del calibro di Benzema, Kantè, Neves, Koulibaly, Laporte, Gabri Veiga, Cristiano Ronaldo (e se non fosse stato vittima di un grave infortunio, anche Neymar). Tutta gente capace di cambiare improvvisamente gli equilibri di campionati, alterandone in modo evidente la regolarità e, soprattutto, il concetto di lealtà sportiva. Sono tre, si è scritto, le categorie di uomini che non hanno soldi: i dissipatori, i poveri egli avari. E l’Europa del calcio negli ultimi trent’anni di denaro ne ha dissipato tanto, mostrandosi incapace non tanto di creare sempre nuovi ricavi ma di concepire i club, trasformati da fenomeni sociali in società a scopo di lucro, una occasione per macinare utili veri da reinvestire anche per la crescita sana dello sport più seguito e amato al mondo. E’ un fenomeno, quello dei club a scopo di lucro, cavalcato non solo dalla necessità araba di fare geopolitica e “sportwashing”, ma anche da contesti politici di destra e di sinistra. Tutto è stato ed è una richiesta allo “sport più sociale del mondo” di spogliarsi del suo status di bene comune per vendersi al mercato.
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In Italia fu Walter Veltroni, Vice Presidente del Consiglio con delega allo sport del primo “Governo Prodi” a trazione sinistra/progressista, a far cadere nel 1996, attraverso un provvedimento legislativo, l’obbligo di reinvestire gli utili dei club nell’attività sportiva. Il partito erede della “Scissione di Livorno” del 1921, con la nascita del Partito Comunista Italiano, aveva deciso di consegnare il calcio alle società di capitali e alla cervellotica decisione di far sbarcare il carrozzone pedatorio persino in Borsa. Risultato? Dal 1998 al 2007 la Serie A colleziona due miliardi debiti, azzerando così tutto il vantaggio accumulato negli anni 80 e 90 con le altre Leghe europee e facendo sprofondare la nostra massima serie calcistica in una crisi di risultati e di immagine senza precedenti nella storia. La crisi senza fine del calcio italico odierno è figlia di quella “Waterloo” favorita dalla decisione di una sinistra convinta del suo percorso di conversione all’atlantismo acritico, a quell’esistenzialismo non più costretto a passare dalle “Case del Popolo” ma piuttosto indirizzato alla frequentazione dei circoli inneggianti alle necessità prioritarie della Banca Centrale Europea, più attente alla finanza e meno alla qualità del “prodotto” vita. Le cose non vanno meglio nella destra iperliberista surrogato della “Scuola di Chicago”; infatti Javier Milei, nuovo presidente dell’Argentina a colpi di slogan sottolineati dal rumore perpetuo di una motosega, nel suo programma di togliere lo Stato da tutte le ramificazioni dell’economia argentina, ha annunciato di voler intraprendere il percorso inaugurato a suo tempo da Veltroni e dalla “Premier League”, abolendo il vincolo “senza scopo di lucro” dalla gestione dei club “dell’Italia dell’altro emisfero”.
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“Il Boca potrebbe essere acquistato dal capitale arabo o il River dal capitale francese - dice Milei -. Che diavolo te ne frega di chi possiede il club se batti il River 5-0 e sei campione del mondo? O preferisci continuare in questa miseria, in questo calcio di pessima qualità”? Osvaldo Soriano e Osvaldo Bayer si staranno rivoltando nella tomba, e non c’è “don’t cry Argentina” a poterli fermare di fronte all’ennesimo attacco portato al cuore del calcio, al cuore di quell’umanità a cui il calcio è stato cucito come un bel vestito su misura da esibire in “sabati del villaggio” più speranzosi di quelli prefigurati da Giacomo Leopardi. “e se qualcuno – insiste Milei – volesse che il proprio club fosse come il Manchester City? Quale è il problema”? I tifosi argentini stanno facendo notare al neo inquilino della “Casa Rosada” come le prime vittime della svolta liberista della “pelota albiceleste” sarebbero gli sport amatoriali, ingoiati dalla ferrea logica del lucro che ridurrebbe i servizi che i club attualmente prestano alle comunità: scuole, piscine, centri d’attenzione medica, club sociali per anziani. Tutto ciò mentre aumentano povertà, precarietà e si riduce l’accesso ai servizi pubblici. I “Bandezaros”, riunioni nello spazio pubblico dove tifosi e soci hanno unito i loro colori sociali, stanno opponendosi con forza alle idee neo mercantili di Milei, e in questa lotta sono appoggiati da molti dei loro rispettivi club. L’idea è quella di creare un nuovo fronte di resistenza prodromo di un modello alternativo alla proposta arrembante, e venduta come unica possibile, di affidare al denaro tutto ciò concernente il destino comune.
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Siamo nella terra del tango, dello sciopero dei calciatori (anche di quelli più celebri) del 1975 per ottenere il contratto collettivo e il diritto alla mutua, della “Mano di Dio”, degli anarchici che fondarono il “Chacarita e a cui fu consentito di costruire lo stadio solo accanto ad un cimitero. Siamo nel calcio sofferente e di lotta che ribalta “l’alegria” carioca, e ci racconta di uno sport magnifico proprio perché figlio di tutte le apparenti contraddizioni dell’occidente cristiano, quasi ossessivo nel cercare i perché e i per come dell’esistenza, anche a costo di conflitti e tesi e antitesi continue. Siamo al mondo per capire e capirsi mentre la squadra del cuore evoca strategie e disegna geometrie per fare la cosa più semplice e complicata del mondo: infilare un pallone nel fondo di una rete. Scrive Osvaldo Bayer: “il calcio è un gioco capitalista, perché richiede sempre il rendimento, l’affanno di vincere, la superiorità. Un gioco socialista, perché c’è bisogno dello sforzo di tutta la squadra, del mutuo aiuto per ottenere il trionfo, ossia una vita migliore”. Siamo, con le parole di Bayer, alla sintesi della cruna dell’ago dell’esistenza, ad un invito a non farci scippare la cosa più simile al Paradiso (come ricordò una volta Benedetto XVI) mai inventata dall’uomo. Il calcio, quando tutto è passato, aiuta a far prendere senso a quel passato e a farne ricongiungere i vari punti. Cosa c’entra il denaro con tutto questo? Cosa c’entrano gli arabi? Cosa c’entra il futuro in uno sport dove tutto è un presente immerso nel passato? Un’altra istantanea porta in una curva di uno stadio di Buenos Aires. Porta ad un’altra scritta: “Mi barrio-mi vida”. Davvero non c’è altro da dire.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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