“Non si possono prendere trote
columnist
Cairo si è perso il Toro
con i calzoni asciutti”.
Miguel De Cervantes
Gustave Le Bon afferma che senza la lenta eliminazione delle tradizioni non può esserci progresso, rielaborando così, in un certo qual modo, la tesi dialettica hegeliana di distruzione continua di tesi precedenti, come “conditio sine qua non” del processo ciclico della storia. Volendo accettare la tesi di distruzione di passato per creare storia nuova, e quindi progresso, non si può non provare a mettere sotto una lente d’ingrandimento come tale tesi abbia agito nel mondo del calcio contemporaneo. È assai evidente l’agire invasivo, negli ultimi trent’anni, del grande capitale sulle vicende dello sport più amato e seguito al mondo, ed è altrettanto evidente come ciò abbia operato e stia operando dei significativi cambiamenti nel suo svolgersi. Nei cambiamenti, è noto, qualcosa si perde e qualcosa si guadagna, e forse non sarebbe male, ogni tanto, soffermarsi nel fare un analisi sui costi e benefici di azioni anche dal contesto generale avvallate.
La prima cosa andata perduta dal mondo del calcio, a causa dell’eccessiva globalizzazione del gioco, è stato il poter agire direttamente su una distribuzione più equa di possibilità e risorse tra le squadre partecipanti ad una lega nazionale. Non so quanti si siano accorti della residua sovranità ormai rimasta agli organismi decisori federali del calcio, ormai inglobato in interessi extra nazionali poco vincolati, sia dal punto di vista etico/sportivo sia dal punto di vista giuridico, a realtà domestiche perduranti da più di un secolo nel calcio. Volendo prendere ad esempio il “Derby della Mole” del prossimo sabato, sarebbe agevole notare come dello spirito cittadino in cui era nata la rivalità tra bianconeri e granata sia rimasto poco o niente. E non è il notevole divario tecnico tra le due squadre, tutto a sfavore dei granata, il problema. Sarebbe un grave errore pensarlo. Siamo di fronte ad una mosca e ad un elefante che vivono la vita della savana con visioni e modalità completamente diverse. E’ una mutazione genetica, quella della savana del calcio, dai connotati irreversibili e quindi da non demonizzarsi, ma piuttosto da cercare di interpretare al meglio, al fine di ritrovare armonia.
LEGGI ANCHE: Rino Gattuso: il ragazzo di Calabria
È evidente come sia il Toro ad avere la necessità di trovare una nuova ragione per far tornare la Juve a sedersi al tavolo del derby con l’antico lume della partita speciale di una stagione. Curioso come Urbano Cairo, master and commander di buona parte del mondo della comunicazione italiana, non abbia ancora preso atto di quanta perdita di saggio di profitto stia procurando alla contabilità finanziaria della società granata la sua totale inanità nel voler dare nuova visione al Torino Football Club. È noto, inutile nasconderlo, come l’imprenditore alessandrino non sia un tifoso granata, ma è altrettanto noto come egli sia un uomo di “prodotto”, ovverossia uno dotato di talento per individuare ciò che può procurare profitto sul mercato della domanda e della offerta. Il proprietario del Toro non è certo ascrivibile alla sinistra e nemmeno lontanamente ad un retroterra culturale liberal/progressista di stampo anglosassone o para-ecologista in stile Greta Thunberg, ma sta facendo le sue fortune imprenditoriali con una rete televisiva diventata erede spirituale della famosa “Tele Kabul” del compianto Sandro Curzi e con un Corriere della Sera, che da ingessato quotidiano filo establishment italiano di ogni tempo, si è trasformato in cassa di risonanza di ogni idea liberal/progressista transitante nel continente europeo. Ha individuato, con intuizione e abilità, un bisogno nell’ansimante mercato editoriale italiano e ha creato i presupposti giusti per soddisfarlo e venderlo. I progressisti italiani, sin dai tempi del partito Comunista Italiano, hanno sempre avuto l’esigenza di luoghi e strutture dove dipanare liturgie e messe cantate. L’esigenza del popolo italico di sinistra di trovare “piazze” intellettuali ed evocative dove ritrovarsi è una delle poche e vere occasioni di business ormai rimaste in quella che fu l’industria culturale italiana.
LEGGI ANCHE: Riparte la Serie A
È incoerente con se stesso, Cairo, nell’aver investito su questo bisogno? A voler dare ancora un valore alla coerenza, forse sì; ma ha mostrato indubitabilmente ottime qualità imprenditoriali, e nel mondo della libera impresa questa è l’unica cosa a contare. Ciò detto, rimane, quindi, a tutt’oggi un mistero il depauperamento di valore e contenuti del Torino Football Club operato da parte del suo presidente. È come se Cairo non stesse riuscendo a trovare un “Filo di Arianna”, per districarsi nel turbolento labirinto calcio in cui si è cacciato. L’imprenditore che ha trovato “nell’identità settaria” la chiave di volta del ritorno all’utile di bilancio di “La 7” e “Corriere della Sera”, non pare avere trovato una via per il ricollocamento del Toro in armonia con la “savana” calcio. Il calcio, si sa, è nato per esaltare le diversità, individuando come luogo di sincretismo esistenziale un rettangolo verde dove far rotolare felicemente un oggetto sferico, da ascriversi come una delle più importanti invenzioni del genio umano. Nella mutazione genetica della savana del calcio di cui sopra, si è assistito allo sbiadirsi in modo progressivo, fino alla cancellazione, di molte idee e motivi esistenziali che hanno dato vita ai club calcistici. Nelle città metropolitane questi sovente sono nati per scissioni tra soci, causate da divergenze di vedute scevre da motivazioni squisitamente finanziarie. Oppure sono stati lo sfogo identitario di settori della classe operaia o, come nel caso del Celtic di Glasgow, un’idea di raccolti fondi per le classi sociali più disagiate.
Insomma, nel corso della fine dell’ottocento e dei primi del novecento, il calcio è stato espressione di un certo modo di stare al mondo, coautore di un radicarsi di tradizioni consolidate nel tempo. Il sincretismo esistenziale, alla base del successo dello sport più seguito al mondo, è in quella genesi a trovare le ragioni del suo successo. Ma, come si è detto, la necessità del progresso alla fine viene sempre a bussare alla porta, e allora le cose devono per forza di cose mutare. E nella mutazione le strade sono due: o ci si adatta con nuove modalità e si diventa più forti, o non si riescono a trovare i giusti accessi alle nuove vie indicate dal progresso e si scompare. Nell’antica Grecia, Atene e Troia erano le città-stato rivali quasi per antonomasia, ma nell’evolversi del tempo e delle tradizioni la rivalità è confluita in un’Atene diventata capitale della Grecia moderna, e in una perdita di ogni traccia di Sparta. Il rischio che il Toro faccia la fine di Sparta al momento è notevole, e dovrebbe essere chiaro a tutti, tifosi compresi, come il destino dei granata non possa ripercorrere i passi finanziari dei bianconeri.
LEGGI ANCHE: Le Iene su Lotito hanno ragione?
E allora che fare? Perché non si creda sia una buona idea quella di accettare di veder scomparire il Toro tra le nebbie della storia, solo perché il suo presidente non sta riuscendo a trovare un’idea utile di progresso. Quale evoluzione deve provare ad avere la società granata per tornare a sedersi con la dignità che gli spetta al tavolo della storia del calcio? Forse, ma è solo un’ipotesi, dovrebbe mostrare chiaramente un’idea di “offerta” diversa di quella della Juventus; e se la società bianconera si spinge verso il palcoscenico mondo, relegando Torino solo come luogo di suo teatro di rappresentazione scenica, probabilmente il Toro, in risposta antitetica, dovrebbe ancora di più cercare un radicamento nella città che fu la prima capitale d’Italia. Indicare una via “sovranista” del calcio, dove i soldi non siano il fine ma il mezzo per la realizzazione di un’idea, potrebbe anche scoprirsi, paradossalmente, un’idea finanziaria molto più redditizia di quelle perseguite fino ad ora. Per quanto si stia facendo di tutto per far diventare il calcio un prodotto di consumo, la reazione etica per inventarsi un futuro diverso da quello prefigurato dal grande capitale non può che rintracciarsi nel dna della storia del calcio.
Nel motivo per cui ha conquistato il cuore di tante generazioni. Il Toro è precipitato in un’anomia senza fine, e pensare che il suo stadio perennemente mezzo vuoto sia solo frutto della presenza invasiva della televisione, vuol dire non aver compreso niente della natura dell’uomo. Urbano Cairo si è, in tutta evidenza, un po’ “perso” il Toro, non riuscendo a trovare un varco per un suo progresso nella storia. Fa un po’ tenerezza la dichiarazione di Moreno Longo che promette ai tifosi “un derby giocato con il coltello tra i denti”, perché pare il frontespizio di una cartolina sbiadita proveniente da chissà quale tempo. L’attuale tecnico granata è stato lasciato solo ad annegare nella malinconia nei suoi ricordi di “ragazzo del Filadelfia”, ed è questa la cosa a fare più male. La solitudine di Longo temo non potrà mai essere compresa da Cairo, a cui si attaglia una feroce terzina del grande poeta giapponese Issa Kobayashi: “sta come un pesce che ignora l’oceano l’uomo nel tempo”.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
Disclaimer: gli opinionisti ospitati da Toro News esprimono il loro pensiero indipendentemente dalla linea editoriale seguita dalla Redazione del giornale online, il quale da sempre fa del pluralismo e della libera condivisione delle opinioni un proprio tratto distintivo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA