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AL AIN, UNITED ARAB EMIRATES - MAY 15: Manchester City owner Sheikh Mansour bin Zayed Al Nahyan are pictured during the friendly match between Al Ain and Manchester City at Hazza bin Zayed Stadium on May 15, 2014 in Al Ain, United Arab Emirates. (Photo by Francois Nel/Getty Images)
“Ho paura di non esserci nel momento in cui c’è bisogno di me”
Kevin Costner
La vita per molto tempo è stata uno schema temporale, qualcosa legata ad abitudini e frammenti di memoria passati da genitori in figli che a loro volta sarebbero diventati genitori. Il mondo era la comunità e l’extramondo erano le comunità confinanti. E tutto in pratica finiva lì, perché il buon senso raccontava quanto fosse logico vivere, parlare, trattare di cose che in qualche modo si potessero conoscere realmente. Per essere chiari: la “sindrome” di Marco Polo era l’eccezione non la regola. Mondi totalmente diversi al massimo si immaginavano, ma non si toccavano. Il calcio è nato e si è sviluppato in questo contesto, con una logica “contradaiola” che ne ha garantito una fortuna probabilmente inimmaginabile agli albori del gioco. Il calcio è “perimetro”, è una storia a marchiare animi desiderosi di avere una bandiera a sventolare nel vento, affinché nessuno della comunità sarebbe mai stato veramente dimenticato. Qualcosa di ognuno, anche piccola, sarebbe sopravvissuta nel tempo. Il capitalismo industriale si era armonizzato con il calcio, ne aveva accettato la natura e lo aveva sostenuto avendo cura di non superare mai il limite della decenza. Nel calcio si guadagnava molto, è vero, ma non si era mai giunti allo scandalo esistenziale odierno di fare diventare i calciatori delle vere e proprie multinazionali dell’immagine. Il capitalismo industriale aveva dei limiti, perché è all’interno delle proprie comunità che si era sviluppato.
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Tutto sembra un secolo fa, ma in realtà è appena ieri, prima dell’abolizione della “Glass-Steagall” negli Stati Uniti(e questa cosa ha avuto una importanza fondamentale nella trasformazione del calcio), prima dell’istituzione a Ginevra del “World Trade Organization”, prima della rivoluzione tecnologica che grazie all’informatica ha impresso una accelerazione della storia con connotati dell’incredibile, prima della facilità di accesso e di scambio dati, prima di mobilità di capitali a scavalcare confini come fossero semplici staccionate a vana difesa di tradizioni e regole codificate nei secoli e divelte con la stessa forza di un uragano, prima del “Trattato di Maastricht, e prima della storica “Sentenza Bosman” a rivoluzionare le dinamiche del calcio europeo. Tutto avvenuto nell’ultima decade del secolo scorso, con connotazioni da presagio davvero inquietanti. Fino agli anni 90 sarebbe stato impossibile togliere la “romanità” alla proprietà della Roma, e gli assetti del club venivano decisi tra i palazzi della politica e gli esclusivi circoli declinanti sul Tevere. Uno come Giulio Andreotti, romano e romanista, stenterebbe a credere il club giallorosso in mano ad una famiglia americana completamente lontana da Roma e le sue suggestioni. Il Como un tempo sarebbe stato nelle mani di un Romeo Anconetani o di un Costantino Rozzi, oggi invece pare normale vederlo in mano a dei fratelli indonesiani molti ricchi, stanziatesi sul “quel ramo del Lago di Como” chissà per quali motivi. E’ stato un gioco oscuro eppure a cielo aperto quello fatto sul calcio, se ne sono fatti lievitare i costi per sottrarlo prima al capitalismo industriale e poi alle comunità. L’affascinante “planetarismo”(spero perdoniate il neologismo) donato dai social, ha fatto diventare comunità ciò che comunità non è, ma era il fraintendimento antropologico/culturale di cui il capitalismo finanziario, nel frattempo andatosi a sostituire a quello industriale, aveva bisogno per attecchire nelle menti degli europei.
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Un gioco talmente vincente, talmente sovrapponibile al residuo di etica sopravvissuto al cataclisma nella società occidentale sopracitato, da rendere liquefatto ogni nostro pensiero e ogni nostro desiderio nello sport divenuto una variazione del mondo dello spettacolo. All’inizio del nuovo secolo nei principali Paese occidentali irrompe dagli schermi tv “Big Brother”, che è il manifesto del concetto di vittoria slegato dall’epica e consegnato alla seduzione dell’immagine. Il successo del format è travolgente e planetario, ed è in questa nuova suggestione che le folle vengono addestrate ad accettare come evoluzione quello che nel calcio è stata una chiara involuzione(sarà un proliferare, dall’inizio del nuovo millennio, di format di intrattenimento con chiari intenti di condizionamento subliminale. Cambiare il punto di vista, questa è la parola d’ordine). L’importante non è più vincere per l’orgoglio e la storia di una comunità, ma solo per la propria immagine a cagione dell’aumento del proprio fatturato. E’ un modello di antropologia culturale che si avvinghia allo sport più seguito al mondo e prende a modellarlo per le nuove esigenze del capitale finanziario in procinto di impossessarsene. I costi vengono fatti lievitare senza limite rispetto al valore prodotto, per sottrarli, come detto, al buon senso del capitalismo industriale e di impresa, ed è in questo contesto a nascere il fenomeno delle multiproprietà nel calcio. Ed è stupefacente come siano riusciti a farcelo accettare come una possibilità in fondo non solo normale, ma eticamente lecita. Siamo di fronte all’ignoto davanti al capitalismo finanziario, ne ignoriamo i reticoli e i reali interessi, non sappiamo niente ma abbiamo la presunzione di sapere. Parliamo ossessivamente di futuro ma non teniamo in giusta considerazione il passato, e ignoriamo ostentatamente il presente. Duecento squadre fanno già parte di multiproprietà, così intrinsecamente legate tra loro e con la caratteristica di essere acquartierate in paradisi fiscali ben protetti e inaccessibili ad ogni controllo. Il fondo “Pif” agisce di concerto con la giapponese “Softbank”, la quale controlla “Fortress Investment Group”, uno dei più importanti fondi speculativi quotato alla borsa di New York.
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Non è raro che gli interessi di quest’ultimo incrocino quelli del “Newton Investment and Development Fund”, il fondo sovrano di Abu Dhabi che controlla il Manchester City e che ha rapporti con la potentissima “China Media Capital”. Ed è solo uno dei tanti schemi in atto. Le complicità corrono sul filo di interessi opachi e quasi sempre speculativi, l’idea è quella di fare girare denaro e contenuti senza essere sottoposti a controlli stringenti. Nessuno ha interesse a disturbare le cose del calcio. Il Jim Ratcliff padre padrone del colosso chimico “Ineos”, può saltellare tranquillamente tra i consigli di amministrazione del Manchester United e quello del Nizza come fosse una questione normale. Un tempo i tifosi sarebbero scesi per strada di fronte a cose di questo genere, ma un tempo il calcio era uno sport, oggi è sempre di più uno spettacolo attraverso il quale rintronarsi dagli affanni quotidiani. Non c’è storia e non c’è più tradizione, e ai futuristi della domenica pare andare bene così. Siamo all’interno della visione americana di avere un vasto portafoglio nell’industria dell’intrattenimento, ovvero una dei crocevia fondamentali dell’economia del ventunesimo secolo. Americani, arabi e cinesi, strettamente legati tra loro da un reticolo di fondi, stanno espropriando il calcio ad un capitalismo europeo quanto mai fragile. Le multiproprietà sono disegnate a catena piramidale, dove l’importante non sono le vittorie(quelle sono destinate al club al vertice della piramide, in un progetto di predestinazione che sono un’autentica blasfemia dello sport) ma la produzione di valore.
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Si allevano giocatori in ogni angolo di mondo, per poi distribuirli secondo la necessità del valore di produzione e non del progetto sportivo. Denaro e geopolitica finanziaria, questo è oggi diventato il calcio un tempo narratore di imprese sportive partite da una genesi sociale per poi diventare epica. Che tutto ciò sia oggi accettato dai tifosi è il vero mistero su cui la sociologia dovrà indagare nei prossimi decenni. Si è di fronte ad una psicologia alienata delle folle, e su questo disinvolti predatori del capitalismo contemporaneo stanno lucrando e ipotizzando affari. Facendo una analogia con il ciclismo, nella multiproprietà i club sotto il vertice della piramide sono i gregari che devono portare la squadra principale a vincere la volata finale. E tutto questo non solo sta avvenendo con il consenso, a questo punto assai inconsapevole, dei tifosi, ma sotto gli occhi dell’Uefa che in teoria dovrebbe difendere gli interessi del gioco in Europa. Accettare la multiproprietà è come considerare lecito il soggiorno del diavolo in paradiso, ma può darsi che a molti la versione di una versione infernale del paradiso in fin dei conti può stare anche bene. A costoro, sinceramente, auguro la miglior fortuna.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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