“Provateci. In tutti i campi della vita”. Claudio Ranieri
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Claudio Ranieri: il normal one dei miracoli
Ho studiato Karl Marx, ne ho apprezzato alcune intuizioni, imparando, e distaccandomi dalle sue conclusioni, non potendo cogliere la sua visione deterministica e materialistica della vita. Ho studiato Nuccio Ordine, godendo della sua affabulazione in ordine ai problemi della semantica e della perversione della tecnica in relazione alle nostre vite, anche qui imparando, ma non potendo accettarne la visione cosmologica della teologia figlia dei suoi poderosi studi su Giordano Bruno. Sono soddisfatto di apprendere e di rimanere affascinato anche da strade tortuose, poco imparentate con la mia visione lineare dell’esistenza capace di farmi palpitare il cuore di fronte ad un pianto a dirotto alla fine di uno spareggio per la promozione in Serie A. Non posso farci niente, per me la vita è una linea retta che va dai miei fallimenti alla verità che può riscattarli.
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Claudio Ranieri è una verità del calcio, è lo scoglio dove chi ama questo gioco può aggrapparsi dopo una lunga e difficile traversata, è l’idea di un profeta biblico capace di indicare sempre la direzione, perché disposto a fermarsi ad ascoltare la voce proveniente dal mistero. L’arbitro fischia la fine di un confronto durato, tra andata e ritorno, 180 minuti, e sir Claudio poggia il viso sulla spalla di un collaboratore, che non riesce a frenare il pianto a dirotto, lacrime lucide di un uomo di 73 anni capace di realizzare imprese perfettamente armoniche con la storia del calcio e la sua reale natura. “L’isola vi vuole bene”, scrive il piccolo Orlando a nonno Claudio su Instagram poco prima della sfida decisiva del “San Nicola”, e si capisce ancora una volta come la genetica conti qualcosa non solo nella parte biologica, ma anche in quella dell’anima. Il “testaccino” più vincente della storia del calcio, nato in una città dove “sir” può diventare “sor” nel giro di una bevuta accarezzati dal “ponentino”, all’esistenza delle isole deve veramente tutto della sua fortuna nello sport più seguito al mondo, come se essere circondato completamente dall’acqua faccia scattare in lui l’intuizione di come fare per estrarre la “spada nella roccia” e andare a sconfinare nell’impensabile, vincendo.
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La stampa non lo ha mai molto amato, non riconoscendogli il phisique du role di chi ha il destino della vittoria stampato in fronte. Non ha l’aurea da quinto “beatle” a sorreggerlo, non è stato nemmeno un giocatore protagonista nell’era felice di qualche grande squadra, eppure è uno di quelli, pochi, che hanno un senso sul prato verde di un campo di calcio. “Claudio è uno di noi”, dice Gigi Riva, isolano per vocazione e conversione, e non è che te lo stia dicendo proprio un passante, non siamo di fronte ad una boutade di uno abituato a sparare parole a mitraglia, è l’attestazione di uno che ha reso grande il calcio italiano, a cui ha “regalato” anche dei terribili infortuni alle gambe, e che quando dice due frasi di seguito ha già la sensazione fastidiosa di aver parlato troppo. “I giocatori del Cagliari devono sapere che rappresentano una regione intera, loro giocano per la Sardegna”, ha detto in queste ore il tecnico romano che, secondo il “New York Times”, con il Leicester ha realizzato la più grande favola della storia dello sport, e colpiscono le sue prime dichiarazioni dopo il post partita a Bari, tutte dedicate ai sardi sparsi nel mondo: “abbiamo giocato anche per loro”.
Ascolti queste parole, che sono uno schiaffo a giungere dentro al cuore più profondo del cuore, mentre ti pare di sentire nell’aria i versi immortali di Grazia Deledda: “siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese. Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri. Di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. Noi siamo sardi”. I poeti sanno ciò che noi nemmeno siamo capaci di immaginare, perché sono amore gratuito e speranza disperata. “Grande sopra ogni fortuna è la fede nella vita e in Dio”, disse una volta la grande poetessa Premio Nobel per la Letteratura, “ e tutti siamo impastati di bene e di male, ma quest’ultimo bisogna vincerlo”; non è il banale “vai dove ti porta il cuore” che vorrebbe mettere in soffitta Giovanni Verga, è la decisione di un allenatore che ha appena vinto una battaglia negli ultimi minuti, e decide senza mezzi termini di andare a riprendere lo spicchio dei suoi tifosi presenti al “San Nicola”, che stanno indegnamente deridendo la delusione dei tifosi baresi accorsi in 60.000 nell’auspicio di tornare a vedere la Serie A.
Sir Claudio ha l’incredibile tendenza a scegliere l’impasto del bene, e lo fa con quella naturale tranquillità e serietà di intenti da lasciare ogni interlocutore inadeguato, spiazzato dal suo non essere mai fuori posto, alla stessa stregua di un romanzo d’avventura a lieto fine ben scritto. Ci sono momenti in cui la vita si fa prepotente, sono quella sequela di istanti quotidiani in cui nessuno, ma proprio nessuno, vuole riconoscere il valore delle cose che hai fatto. È una corrente bastarda e apparentemente incontrastabile, talmente tenace da farti credere di essere la certificazione della tua morte. Per Ranieri questo momento arriva nel 2014, quando accetta il ruolo di Commissario Tecnico della Grecia e il suo bilancio sarà solo una sequela di risultati negativi. Ecco, allora, ripartire la litania di chi non vede l’ora di mettere in croce colui sprovvisto di quarti di nobiltà, un bravo figliolo è vero, ma alla fine un perdente con il sorriso. “Sembra anzi che la vita giri tutto tondo”, dice Don Chisciotte, e anche a sir Claudio deve essere parso così, quando undici anni dopo il Chelsea, l’Inghilterra lo richiama alla guida del Leicester, semplicemente perché il vecchio allenatore è stato licenziato per uno scandalo sessuale in cui sono stati coinvolti quattro giocatori, di cui uno è il figlio.
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La sensazione è di essere sempre considerato una ruota di scorta, quello chiamato all’ultimo secondo per cercare di mettere una toppa sopra un buco uscito davvero male. Sbarca in Inghilterra e gli arriva una bordata dall’Italia pubblicata su “Il Foglio” da Jack O’Malley: “una sola verità resta intatta. Nel calcio inglese, italiano o francese, qualunque sia la squadra che alleni, Ranieri arriva secondo”. Il dubbio continuo è un sentimento pagano, direbbe Lord Byron, e ciò contrasta con una cosa che sta alla base del calcio, come della religione: la fede. “Un allenatore è come un paracadutista – dice un giorno Ranieri in una onirica conferenza stampa al Valencia -: non sa mai davvero se il paracadute si aprirà”. Il calcio è nemico dello scetticismo. È vita che esplode più o meno come quando il Bing bang diede inizio alla storia infinita del palcoscenico sul quale ogni giorno saliamo. Ranieri chiude gli occhi, magari rincorre qualche preghiera, e poi si butta dall’aereo mandando a quel paese Jack O’Malley e l’ipotesi del paracadute che non si apre.
Parma, Sampdoria, Roma sono i suoi ceri accessi alla dea eupalla, ma è con il Leicester che compie il miracolo da tutti conosciuto. Vince la Premier League, destando una sorpresa simile più o meno come quando Gesù prese a camminare sulle acque davanti agli Apostoli davvero sbigottiti. A quel punto tutti i suoi più feroci detrattori devono arrendersi all’evidenza, perché non si può vincere il campionato più prestigioso del mondo, e con il roster tra i più sgangherati e originali di sempre, con l’aurea dell’eterno secondo. Vale una delle frasi più vere mai scritte da Aleksej Tolstoj: “se sulla gabbia di un elefante vedi scritto bufalo, i tuoi occhi non ci credono”. Sei nella terra di Charles Darwin e della Chiesa Anglicana dove, secondo Oscar Wilde, “un uomo ottiene successo non per la sua capacità di credere, ma per la sua capacità di non credere”. Nel regno dei Windsor i miracoli non hanno cittadinanza, tutto si deve sostentare sui sensi, ed è normale come in un contesto simile il Leicester di Ranieri venga catalogato come un insondabile, ed irripetibile, buco nero. Il tecnico romano da sempre l’idea di essere quell’atavico ad indicare il pensiero giusto, poiché anche nel calcio c’è bisogno di un senso di giustizia che perpetui la sua verità, senza la quale sarebbe ridotto solo ad una espressione di spettacolo (e so bene come ci siano forze che vorrebbero solo questo).
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Quando ho visto l’altra sera Ranieri piangere a dirotto per l’ennesimo traguardo raggiunto, mi è istantaneamente sovvenuta una frase della fede alla quale appartengo, a me molto cara: “siate pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in voi”. L’altra sera, al fischio finale dell’arbitro Marco Guida, nella “terra dei lunghi silenzi” è partito un boato di felicità, un senso di gratitudine per un una persona che non ha perso aplomb e ottimismo nemmeno davanti all’ennesima domanda maliziosa sulla sua fama di essere solo un aggiustatore: “Io aggiustatore? Ognuno di noi ha un karma, evidentemente io ho questo”. Fantastico sir Claudio, ti sei caduto e rialzato tante di quelle infinite volte da accettare ogni vanità verbale con il sorriso. forse molti si dimenticheranno subito di te quando ti ritirerai dal calcio, ma non le tue isole. Esse sono circondate dal mare, e sanno essere grate agli uomini che per loro conto lo hanno sfidato e vinto.
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